MARZO
IX GIORNO
Santa Francesca Romana.
Modo sicuro per guarir dall’infermità del peccato.
«Omne, quod tibi applicitum fuerit, accipe, et in dolore sustine, et in humilitate tua patientiam habe. Quoniam in igne probatur aurum, et argentum; homines vero receptibiles in camino humiliationis. — Ricevi tutto quello che ti verrà applicato, soffri il dolore, e tollera con pazienza la tua umiliazione. Perocchè nel fuoco si fa saggio dell’oro, e dell’argento; e degli uomini accettevoli nella fornace dell’umiliazione » (Ecclesiastico o Siracide 2, 4).
I.
Considera, che tre sorte d’infermi si trovano. Alcuni bramano di guarire, ma non voglion sottoporsi a medicamento di alcuna sorte. Quella bevanda è troppo amara per loro, quel fuoco è troppo cocente, quel ferro è troppo crudele, e così a tutto pongono qualche eccezione. Altri vogliono sottoporsi ai medicamenti, ma solo a quelli che vanno loro a capriccio. Come Naaman volea dal Profeta rimedio per la sua lebbra, ma a modo proprio. Volea che il Profeta gli ponesse le mani sopra la testa, non volea bagnarsi in un fiumicello sì ignobile, e sì infelice, come a lui pareva il Giordano. Altri finalmente si offeriscono pronti a qualunque cura, e dicono al Signore: Scottate, squarciate, disponete di me come piace a voi; sono in mano vostra. Or questo è l’unico modo a poter guarire. Tu sei infermo, e infermo ancora mortale. Vuoi ricuperare la sanità? Omne quod tibi applicitum fuerit, accipe. Lascia che il Signore applichi a te quel rimedio, che piace a lui, perchè egli solo sa qual di tutti può esserti più giovevole.
II.
Considera, che il Medico non applica sempre il medicamento all’infermo di propria mano. Anzi ciò fa poche volte; comunemente a ciò si vale di mano molto men nobile della sua, qual è quella d’un Cerusico, o d’un vile Speziale, o d’un vil servente. Così fa Dio: lascia, che quell’avversità, la quale ha da essere il tuo rimedio, non ti venga da esso immediatamente, ma da uno di bassissima condizione, da un cittadinello, da un contadino, da uno almen, ch’è di molto inferiore a te. Però « quod applicitum fuerit accipe — Ricevi tutto quello che ti verrà applicato ». Non si nomina punto « quo sit applicitum — da chi venga applicato », perchè ciò nulla rileva. Non hai da mirare a chi applichi il medicamento, hai da mirare a chi l’ha ordinato, ch’è Dio: tanto più ch’egli è quello, che regge sempre la mano a colui, che l’applica, affinchè nulla trascorra dal suo dovere. Non così fa il medico umano.
III.
Considera, che quando il medicamento è di qualità sua doloroso, non ti si chiede, che non lo senti, ma che lo soffri, In dolore sustine. Se la natura fa la sua parte in commuoversi, basta, che tu procuri di reprimerla in modo, che non prorompa a querelarsi arditamente del Medico, o a risentirsi, come fa un infermo frenetico, contro chi gli applichi in tempo il medicamento. Non senti tu nel tuo corpo ancora il dolore di quel fuoco, ch’è sì cocente, di quel ferro, ch’è sì crudele? E pure lo tolleri, anzi paghi ancora la mano di quel Cerusico, che in te l’usa, ancorchè non l’usi per affetto, che porti alla tua salute, ma al suo guadagno. Così hai da far parimente nel caso nostro: « In dolore sustine — Soffri il dolore ». Se tu non sai far di più, ch’è pagare chi ti maltratta, rendendogli ben per male, almeno sta forte.
IV.
Considera, che nelle umane tribolazioni, ciò che suole arrecare comunemente più di molestia, non è tanto il dolore, quanto è l’ignominia, e non è tanto il danno, quanto è l’insulto. Se quel disastro venisse a te immediatamente da Dio, ti disporresti certamente a portarlo con maggior animo: ma perchè viene solo mediatamente, tu ti dimentichi totalmente di Dio, e tutto ti attui a rimirare chi è sulla Terra, colui che ti ci fa stare: e questo è quello, che ti accende, che ti agità, che ti fa talora prorompere in brutte smanie. Però « in humilitate tua patientiam habe — tollera con pazienza la tua umiliazione ». Così Dio ti umilia, sferzandoti bensì, ma per mano altrui. Tu che hai da fare? tollerar con pazienza l’umiliazione. Del dolore si dice, che tu lo tolleri, sustine; dell’umiliazion, che la tolleri con pazienza; patientiam habe. Ogni pazienza è tolleranza, ma non ogni tolleranza è pazienza, perchè pazienza’ propriamente vuol dire una tolleranza continuata; e questa qui ti è richiesta; che però in vece di « patientiam habe — tollera con pazienza », il Siriaco voltò: « longanimis esto — sii tollerante »; tanto più che il dolore non suol essere troppo lungo quand’è eccessivo; e così basta ad esso una tolleranza per modo d’atto: l’umiliazione può essere eccessiva, e insieme lunghissima, e però a lei si ricerca una tolleranza per modo di abito: « In dolore sustine; in humilitate patientiam habe — soffri il dolore; tollera con pazienza la tua umiliazione ».
V.
Considera, qual è il fine, per cui Dio ti maltratta in questa maniera, ch’è per provarti. Un principe per risolvere, se una moneta si abbia da ammettere nel suo stato, che fa? Si contenta della bella apparenza? Non già, la fa gettare nel fuoco; perciocchè quivi subito si vedrà, se corrisponde alla beltà la sodezza. Così fa Dio, non si appaga dell’apparenza, e così ti pruova con quell’avversità, che ti manda: « Quoniam in igne probatur aurum, et argentum, homines vero receptibiles in camino humiliationis. — Perocchè nel fuoco si fa saggio dell’oro, e dell’argento; e degli uomini accettevoli nella fornace della umiliazione ». Chi ti rimira all’esterno, chi ti sente parlare, chi ti scorge procedere, ti terrà per metallo sodo. Crederà, che sii Cristiano fedele a Dio, umile, ubbidiente, divoto. Ma quanto ingannasi! Tu non sei tale; apparisci, perchè non sei stato ancora nella fornace: vengasi un poco alla pruova, e si vedrà, che la tua virtù è tutta frivola, perciocchè subito ti lamenti di Dio, ti inquieti, t’inalberi, perdi tutta la soggezione al voler divino (nel che sta la vera sodezza) e giungi in una parola a prevaricare, quasi che vogli anche a forza scappar dal fuoco. Non ti maravigliar dunque mai, se il Signore ti tribola, perchè come il Principe pruova la moneta, per veder se sia « receptibilis — accettevole » nel suo stato, così Dio pruova anche te per veder, se sii « receptibilis — accettevole » nel suo regno. Vuoi tu che in Cielo mai corra metallo falso? Non v’è lassù, come in terra, virtù apparente, tutta è reale.
VI.
Considera, perchè l’avversità è di più chiamata « caminus humiliationis — fornace dell’umiliazione », perchè non v’è cosa, la qual più fiacchi l’orgoglio. Finchè Dio non ti pruova, come or s’è detto, oh quanto tu ti compiaci frequentemente di te medesimo! Ti fidi di quei desiderii, che senti nell’orazione, di quelle proteste, di quei propositi, di quegli affetti sì pii; ma quando poi si viene alla pruova, oh quanto tu medesimo ti conosci calar di peso, e così ti vieni opportunamente a confondere ! Ringrazia dunque Dio, se spesso ti tiene in un tale stato, perchè questa è la via più sicura di andare al Cielo, la via della umiliazione. Solo prega Dio, che ti conforti a resistere virilmente, e che voglia star teco nella fornace in camino humiliationis, come già stette con quei tre santi Fanciulli di Babilonia « in camino ignis ardentis — nel mezzo della fornace ardente » (Daniele 3, 23): non già per non avere a sentir l’ardor del fuoco, come fu in quelli; ma solamente per non dover mai desistere dal lodare lui stesso di mezzo il fuoco, quando ancor ne senti l’ardore. Così fece questa gran Santa di oggi, che può giustamente chiamarsi la Donna forte per la sodezza, la qual mostrò in tante pruove, che Dio ne tolse, di dolore egualmente, e di umiliazione.