La Manna dell’Anima - Lectio divina - P. Paolo Segneri

LUGLIO

 

VIII. GIORNO

In che consiste l’ubbidienza, e come si acquisti.

 

« Quasi peccatum ariolandi est repugnare, et quasi scelus idololatriae nolle acquiescere. — Il ripugnare è come il peccato della divinazione, e il non voler soggettarsi è come il delitto d’idolatria » (Primo libro di Samuele 15, 23).

 

I.

Considera, che per esser vero ubbidiente non basta, che tu eseguisca quello, che il Superiore ti comanda; ma che passi più oltre, e che lo eseguisca per questo appunto, perchè te lo comanda. Se lo eseguisci, perchè è secondo il tuo genio, se lo eseguisci per desiderio di premio, se lo eseguisci per dubbio di punizione, non sei finora ubbidiente vero, perchè cessando somiglianti motivi resti ancor di eseguire. Allor sei vero ubbidiente, quando tu ti conformi al tuo Superiore non solo con l’opera materiale, ma ancor con la volontà, sicchè vuoi ciò ch’egli vuole, e lo vuoi solo per questo, perchè ei lo vuole. Eccoti però la ragione, per cui il non voler ubbidire si dice qui dal Signore : nolle acquiescere. Non si dice « nolle exequi — non voler eseguire », si dice « notte acquiescere — non voler soggettarsi ». Perchè l’ubbidienza consiste in quello acquietamento di volontà, il quale allora è perfetto, quando la volontà del suddito giunge a segno, che riposa in quella del Superiore, come in suo centro. Ma questo acquietamento sì necessario di volontà difficilmente si può mai conseguire, ove l’intelletto ricalcitri. E però a ben ubbidire convien che prima tu cerchi di persuaderti, che il Superiore fa bene a comandarti ciò ch’ei comanda. Se tu piuttosto cerchi ragioni da credere, ch’ei fa male, tu commetti errore gravissimo, perchè con ciò ti disponi a non ubbidirgli. E questo è qui repugnare. Non ripugna chi udito il comandamento rappresenta al Superiore umilmente quelle difficoltà, che scorge in contrario. Ripugna chi dopo averle rappresentate seguita a sostener la propria opinione, e contraddice, e contrasta, e vorrebbe inchinare al giudizio proprio il giudizio del Superiore. Ora perché tu intenda, quanto alto male sia questo, ch’hai qui sentito, dice il Signore, che « quasi peccatum ariolandi est repugnare, et quasi scelus idololatriae notte acquiescere — il ripugnare è come il peccato della divinazione, e il non voler soggettarsi è come il delitto d’idolatria ». « Repugnare — Ripugnare » appartiene qui all’intelletto : « Nolle acquiescere — Non voler soggettarsi » appartiene alla volontà. Questo detto è, s’io non erro, il più orribil fulmine, che nelle Divine Scritture si sia scagliato contro i disubbidienti. Però tu palpita solamente ad udirlo, ed esamina te medesimo seriamente per veder bene, se ripugni al tuo Superiore in qualche occorrenza, e ripugni in modo che neppure nel fine ti acquieti.

II.

Considera per qual ragione si dica, che il ripugnare, cioè l’opporre il giudizio proprio al giudizio del Superiore, è un peccato simile a quello di chi si metta ad indovinare: Quasi peccatum ariolandi est repugnare. La ragione è, perchè è indubitato, che tu seguendo il giudizio del Superiore in tuttociò dove non apparisce manifestamente peccato, non puoi non piacere a Dio; ma non così seguendo il giudizio proprio: perché quando anche tu faccia azioni in sè per altro lodevoli, come sono digiunare, disciplinarsi, udir Messa, e più altre tali, in fino a tanto che le fai di proprio capriccio, può essere, che in tali circostanze di tempo, non tanto piaci a Dio, quanto piaceresti facendo altre opere differenti da quelle, sicchè alla morte egli abbia adire ancora a te ciò, che disse a’ miseri Ebrei: « Quis quaesivit haec de manibus vestris? — Chi ha domandate tali azioni dalle vostre mani? » (Isaia 1, 12). Ma quando siegui il giudizio del Superiore, avviene il contrario. Perciocchè il meglio, che in qualunque circostanza di tempo tu possa fare, è far ciò che ti è comandato: mercecchè l’ubbidienza fa, se tu ben vi guardi, come un innesto. Inserisce nell’umana volontà la Divina : e così fa che l’umana volontà, per altro selvaggia, produca frutti di una tal qualità, quali ella stando nel puro suo naturale non sarebbe mai abile a generare da se medesima. Ora lasciare il certo per l’incerto, è un porsi ad indovinare : e però ben si dice nel caso nostro: « Quasi peccatum ariolandi est repugnare. — Il ripugnare è come il peccato della divinazione ». Se siegui il giudizio tuo, può esser che tu accerti ad operar rettamente, ma non può esser ancora, che non accerti: se siegui il giudizio del Superiore, tu accerti sempre. Che ti par dunque di ciò? Ti par leggier peccato far da indovino, mentre tu puoi anzi procedere da prudente? Da indovino voleva già far Saulle, quando sconfitti gli Amaleciti, si dava a credere, che sarebbe stato assai meglio serbare alcuni grassi animali per sagrificarli al Signore, ut immolarentur Domino (Primo libro di Samuele 15, 15), che tutti ucciderli, come gli era stato ordinato da Samuele, ond’è, che Samuele gli disse in tale occasione quelle parole, che tu qui ponderi : « quasi peccatum ariolandi est repugnare — il ripugnare è come il peccato della divinazione ». E da indovino vuoi spesso fare anche tu, quando quantunque sappi, che il Superiore stima meglio per te il tal luogo, la tale occupazione, la tal’opera, il tale tenor di vita, tu ancora ripugni col tuo giudizio, e siegui ostinatamente a stimar l’opposto : « Confundentur omnes qui repugnant. — Saranno confusi tutti coloro, che ripugnano »

III.

Considera per qual ragione si dica, che il non voler ubbidire sia una scelleratezza simile a quella di chi idolatra Quasi scelus idololatriae est nolle acquiescere. Lo intenderai, se ponderi sottilmente ciò, che il disubbidiente pretende, come disubbidiente. Il lascivo, come lascivo, pretende di sfogar la sua sensualità. L’avaro, come avaro, di accumulare. L’ambizioso, come ambizioso, di avantaggiarsi. Il disubbidiente pretende fare a suo modo; ma che altro è ciò, ch’un aspirare a riconoscere il voler suo per suo Dio? L’esser la prima regola di quelle operazioni, che tu devi fare, è un attributo tanto proprio di Dio, che non può mai competere a verun altro, se Dio non glie lo comunichi. A vero ch’egli lo ha già comunicato in riguardo tuo a’ tuoi Superiori. Ma però appunto si dice, che questi tengono presso te sulla terra il luogo di Dio : « Qui vos audit, me audit. — Chi ascolta voi, ascolta me » (Vangelo di Luca 10, 16). Mentre dunque tu vuoi levare un tale attributo ad alcuno d’essi per trasferirlo nel tuo libero arbitrio, che altro fai, se non ciò che facevano gl’idolatri quando a piacer loro comunicavano or agli animali del bosco, or alle pietre, or alle piante quel nome, ch’è di sua natura incomunicabile? « Incomunicabile nomen lapidibus, et lignis imposuerunt. — Diedero al legno ed a’ sassi il nome incomunicabile» (Sapienza 14, 21). Se non che tu fai per certo modo di peggio. Perchè gl’idolatri comunicavano ai sassi, agli stipiti il nome solo di Dio; tu al tuo volere ne comunichi ancora l’autorità. Fai ch’egli sia la regola riverita del tuo operare. Da idolatra si diportò già Saulle, quando, non ostante il divieto di Samuele, pur volle fare a suo modo, e lasciar vivo tra l’alta strage degli Amaleciti il loro Re Agag, e preservar quelle spoglie, che gli piacque di preservare, e intender quelle, che gli piacque d’incendere; e però si udì dire appresso da Samuele, che « quasi scelus idololatriae est nolle acquiescere. — Il non voler assoggettarsi è come il delitto d’idolatria ». E da idolatra non ti diporti anche tu allor che adori la tua volontà, di maniera che le rendi un culto Divino, ch’è quanto dire la tieni per prima regola? Questo è un fare altar contr’altare: anzi questo è un depor dall’altare la volontà del tuo Superiore, che devi in terra rispettar, come appunto quella di Dio, per costituirvi la propria.

IV.

Considera, che se grave è la colpa degl’indovini, assai più grave anch’è quella degl’idolatri, che però, dove la prima è detta peccato, peccatum ariolandi, la seconda è chiamata scelleratezza, scelus idololatriae. Ora la medesima proporzione anche corre nel caso nostro. Il ripugnare al Superiore, il contendere, il contrastare, il sostenere un giudizio contrario al suo, è peccato, non può negarsi, è peccato considerabile, perchè è ,un apprezzar più l’incerto, che l’infallibile: Quasi peccatum ariolandi est repugnare. Ma il non volere ubbidire, nolle acquiescere, passa i segni, perchè è un pretendere di sottomettere al voler proprio il volere di chi tiene il luogo di Dio. E non è grave disordine, che il tuo Superiore più debba fare a tuo modo, di quel che tu faccia a modo del Superiore? Di ragione dovresti tu dire a lui, come Saulo atterrito su la via di Damasco già disse a Cristo: « Quid me vis facere? — Che volete voi, ch’io faccia? » (Atti degli Apostoli 9, 6). E pur bisogna che egli dica anzi a te, come già disse Cristo al cieco di Gerico: « Quid vis ut faciam tibi? — Che vuoi, ch’io ti faccia? » (Vangelo di Marco 10, 51). Guardati bene, perchè il tuo voler finalmente è un idolo vano. Se tu l’adori, adori in esso il Demonio, che non potrà se non che solo inviarti alla perdizione. Se vuoi salvarti, detesta sì abominevole idolatria, « a voluntate tua avertene — raffrena i tuoi appetiti » (Ecclesiastico o Siracide 18, 30) : getta a terra l’idolo, calpestalo, conquidilo, non far d’esso più stima alcuna, e rendi intero all’arbitrio del tuo Superiore quel nome, che a lui si deve, di essere in terra a te tua prima regola.

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