OTTOBRE
VII. GIORNO
Il paragone della vite e del tralcio c’insegna come dobbiamo viver uniti a Cristo.
« Ego sum vitis, vos palmites. Qui manet in me, et ego in eo, hic fert fructum multum, quia sine me nihil potestis facere— Io sono la vite, voi i tralci. Quegli che resta in me, ed io in lui, produce molto frutto, perchè niente potete fare senza di me » (Vangelo di Giovanni 15, 5).
I.
Considera, che siccome i tralci hanno bisogno della vite, e la vite non ha bisogno de’ tralci : così accade tra Cristo e noi. Tronca dalla vite un tralcio quanto tu vuoi, troncane un altro, troncane un altro, la vite riman sempre nel suo vigore, e ne può produr de’ novelli. Ma il tralcio, ch’è troncato, non ha più nulla di quel vigor ch’avea prima. Però questo è ciò, che intese Cristo singolarmente di insinuarci nel presente luogo, dicendo : « Ego sum vitis, vos palmites — Io son la vite, voi i tralci » : intese d’insinuarci, ch’egli da una parte non ha bisogno di veruno di noi : « Quid prodest Deo, si justus fueris? — Che vantaggio ha Dio, se tu sarai giusto? » (Giobbe 22, 3) e che noi dall’altra abbiamo tanto bisogno di lui, quanto n’ ha ciascun tralcio della sua vite. Oh se tu t’internassi in penetrar bene questa somma necessità, ch’hai tu di Cristo a pro tuo, e quella niuna, la quale ha egli di te; quanto ben ti verresti ad annichilare alla sua presenza, e a desiderar daddovero di star in lui come tralcio forte ai nembi, alle nevi, ad ogni più crudo genere di procelle ! « Quis nos separabit a charitate Christi? Tribulatio? an angustia? an fames? etc. — Chi ci dividerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione? forse l’angustia? forse la fame? ecc. » (Lettera ai Romani 8, 35).
II.
Considera, che cosa sia questo, che sì dice qui stare in Cristo, come il tralcio. sta nella vite. E’ stare in Cristo di modo, ch’egli in te possa trasfondere il suo vigore. E’ star costante in amarlo : ch’è ciò ch’egli medesimo dichiarò poco sotto v in quelle parole : « Manete in dilectione mea. — Perseverate nel mio amore ». Vedrai de’ tralci recisi già dalla vite, e vedrai degli uniti ad essa. Ma tra gli uniti ad essa v’è questa diversità, che alcuni sono uniti a lei mortamente, altri vivamente. Uniti vivamente son quei, che traggono tanto umor dalla vite, quanto basti a fruttificare. Uniti mortamente son quei, che nol traggono, e però sono svenuti, squallidi, smunti, e se non sona morti, come i recisi, sono almen vicini a morire. Cosi ‘accade nel caso nostro. Alcuni sono recisi già dalla loro vite, ch’è Cristo, e questi sono gli Eretici : « propter incredulitatem fratti sunt — sona stati recisi per l’incredulità » (Lettera ai Romani 11, 20) ; altri vi sono uniti, e questi sono i Fedeli. Ma di questi alcuni vi sono uniti in fede sola, altri in fede insieme, ed in carità. Questi che sono uniti in fede, ed in carità, questi si dicono uniti vivamente alla vite, perchè la vite è vicendevolmente unita con essi, e gli fa operare: « Qui manet in charitate, in Deo manet, et Deus in eo. — Chi sta nella carità, sta in Dio, e Dio in lui » (Prima lettera di Giovanni 4, 16). Quelli che sono uniti in fede sola, questi si dicono uniti sì alla loro vite ancor essi; ma mortamente, perchè non è con essi unita la vite, la quale esclama : « Ego diligentes me diligo — Io amo quei, che mi amano» (Proverbio 8, 17), e però non trasfondendo questa in loro quell’umor vivifico, senza di cui non può tralcio veruno giammai dar frutto di vita eterna, se quelli restano non per tanto uniti alla vite, restano uniti ad essa in un modo morto. Ecco però lo stato di quei fedeli, i quali vivono in peccato mortale. Mira s’eglino sono infelici ! Stanno in Cristo, ma oimè come vi stanno! vi stanno in modo, che Cristo non istà però in loro, quale autore almen della grazia : vi stanno, e non vi stanno ; ch’è quanto dire, vi stanno i miseri a guisa di tralci languidi, già già vicini a seccarsi. E tu se per tua sventura ti riconosci di questi tralci, pur vivi lieto?
III.
Considera come Cristo si porta da vite vera : Ego sum vitis vera, e però come buono, come benevolo, mai non rimane, quanto è da sè, di trasfondere ne’ suoi tralci l’umor vitale, se da lui questi prima non si dividono col peccato. Non ti maravigliare però s’egli in questo proposito già ne disse : « Manete in me, et ego in vobis — Rimanete in me, ed io in voi » (Vangelo di Giovanni 15, 4); cioè « manete in me, et ita monete in me, ut et ego maneam in vobis — rimanete in me, e rimanete in me di tal maniera, ch’io pure rimanga in voi », ch’è la forza di una tal formola. Egli non brama altro, che questa unione scambievole di noi a lui, di lui a noi, e però ce l’ordina : ma perchè ce l’ordina, se non perchè una tal unione a lui già mai non rimane? Se potessimo noi star ad esso uniti per carità, senza che stesse per carità unito ancor egli a noi, sarebbe questo un ordine di niun pro, inetto, imprudente. Ma mentre tale non è alcun ordine uscito mai di sua bocca, dobbiamo intendere, che quando questa vite divina non manda umore, la colpa è nostra : noi la tenghiamo da noi disgiunta, e divisa : « Peccata vestra diviserunt inter vos, et Deum vestrum. — I vostri peccati sono quelli, che hanno messa divisione tra voi, e il vostro Dio » (Isaia 59, 2). Però ch’abbiamo da fare, se non che riconoscere il nostro misero stato, e rammaricarcene? Vero è, che il gemere stesso, che fanno i tralci, vien dalla vite: e però se in te de’ tuoi peccati tu provi dolore alcuno, se ti confondi, se ti commovi, se già cominci in qualche modo a compungerti dell’errore da te commesso in tener rimosso da te chi solamente può a te dare ogni bene come tua vite, sappi pur, che questo medesimo è favor suo. Egli quantunque pur disunito da te, ti eccita con la sua grazia preveniente a trattar di riunione, tanta è la voglia, che ha di stare in te, benchè alla fine tu sii tralcio, egli vite, la qual però niun bisogno al mondo ha di te, tanti son quei, che senza te gliene restano : « Extendit palmites suos usque ad mare, et usque ad flumen propagines ejus. — Fino al mare stese ella i suoi tralci, e le sue propaggini sino al fiume » (Salmo 80, 12).
IV.
Considera come il tralcio non solamente ha dalla vite il potere produrre il frutto, ma di più ha l’atto medesimo del produrre, perchè ad ogni producimento di frutto, il quale a poco a poco tu miri spuntar dal tralcio, concorre senza intermissione la vite col suo vigore, operando insieme col tralcio, e fruttificando. E così fa Cristo in virtù della grazia, mentr’egli è in noi. Non solo ci dà il poter far delle opere meritorie di vita eterna, ma ci dà il farle: « Ego quasi vitis fructificavi. — Io a guisa di vite diedi dei frutti » (Ecclesiastico o Siracide 24, 23). Nè solo ci dà il farle più facilmente, come in fine ammise Pelagio, nè solo ci dà il farle migliori, nè solo ci dà il farle maggiori; ci dà assolutissimamente l’istesso farle, come la vite dà appunto al tralcio il far l’uve, che però disse Cristo qui con tanta enfasi : « Sine me nihil potestis facere — Niente potete fare senza di me »; per dinotare, ch’egli non intende solo del modo di fruttificare, intende della sostanza. Senza lui non si può far nulla. E tu non apprendi tanto più vivo il bisogno di stare unito alla vite? Oh se tu spesso ripetessi fra te queste divine parole : « Sine me nihil potestis facere — Niente potete fare senza di me », quanto giù ne andresti ad immergerti nel tuo nulla!
V.
Considera, che siccome non v’è alcun fiore di verità, da cui non possa chi è ragno succhiar veleno, così da queste parole illustri di Cristo hanno alcuni dedotto un errore palpabile, qual è l’attribuire tanto alla grazia il producimento delle nostre opere buone, che nulla ne rimanga al libero arbitrio, quasi che Cristo, mentre ci fa fare il frutto, ci tolga il fare. Ma come ci toglie il fare s’egli fa farcelo? Piccola gloria sarebbe in ver della vite, s’ella da sè producesse l’uve. La sua gloria maggiore è dare ai tralci la virtù di concorrere, e di cooperare al produrle anch’essi. Che però disse qui Cristo : « Qui manet in me, et ego in eo, hic fert fructum multum — Quegli che resta in me, ed io in lui, produce molto frutto » : nè negò al tralcio il produrre le uve semplicemente, negò il produrle da sè, cioè il produrle non in virtù della vite : « Sicut palmes non potest ferre fructum a semetipso, nisi manserit in vite: sic nec vos nisi in me manseritis. — Siccome il tralcio non può per se stesso dar frutto, se non si tiene nella vite: così nemmeno voi, se non vi terrete in me ».. E’ forse questa legittima conseguenza : il tralcio, se non è nella vite, non può produrre alcun frutto ; dunque nemmen può produrlo, s’è nella vite? Sarebbe questa una conseguenza derisa da qualunque anche rustico di contado. Quindi è, che come l’uve si attribuiscono, qual suo frutto, alla vite che n’è l’operator principale; così non lasciano di attribuirsi qual suo frutto anche al tralcio : « Pergentesque ad torrentem Botri, absciderunt palmitem cum uva sua, quem portaverunt in vette duo viri. — E tirando innanzi sino al torrente del Grappolo, troncarono un tralcio colla sua uva, e lo portarono due uomini appeso ad un bastone » (Numeri 13, 24). Se però l’uve possono dirsi giustamente del tralcio, benchè egli ne sia l’operatore secondario; perchè le nostre buone opere non si potranno dir giustamente di noi? Anzi di noi pure hanno a dirsi : « Date ei de fructu manuum suarum. — Date a lei de’ frutti delle sue mani » (Proverbio 31, 31). Questo è l’amore che ci ha portato il Signore: ha voluto, che i suoi doni sian nostri meriti. E però egli è vite sì, ma vite che non ci necessita ad operare, quantunque siamo suoi tralci : solamente ci fa operare: fa « ut fructificemus Dea — che diamo frutti per Iddio » (Lettera ai Romani 7, 4), perchè ci tratta da quei tralci che siamo, ci tratta da ragionevoli.
VI.
Considera, che s’è così, tanto noi dunque a lui siamo più obbligati; mentre da un lato ci dà virtù di operare, e però c’infonde la grazia; dall’altro non ci toglie il merito d’operare, anzi vuol che un tal operare a noi sia imputabile, n’abbiam lode, n’abbiam pregio, n’abbiam paga, n’abbiam corona; e però non ci toglie il libero arbitrio : « Est sapiens anima sum sapiens, et fructus sensus illius laudabilis. — E’ sapiente colui, che è sapiente per l’anima propria, e i frutti della prudenza di lui son degni di laude » (Ecclesiastico o Siracide 37, 25). E’ vero che l’istesso buon uso del nostro libero arbitrio tutto è suo dono, e che però noi non dobbiam mai gloriarci punto di nulla, se non in lui: Qui gloriatur in Domino glorietur: ma è ben anche verissimo, che se tal uso in noi non è buono, la colpa è nostra; mentre noi siamo quei che non lasciamo operare alla vite dentro di noi, secondo il suo desiderio, ed o rigettiamo totalmente il suo sugo, o se il riceviamo, lo convertiamo in frutto ora inutile, ed ora iniquo: « Gonvertistis fructum justitiae in absinthium. — Avete cangiato il frutto della giustizia in assenzio » (Amos 6, 13). Sappi dunque sempre tener vive nella tua mente queste due massime, che se fai del bene, proviene da Dio, che ti dà la grazia di volerlo fare, e di farlo : se nol fai, provien da te, il quale opponendoti alla grazia col tuo libero arbitrio, dai con tanti altri occasione a Dio di gridare con verità: « quae nolui elegistis — avete voluto quel, ch’io non voleva » (Isaia 65, 12). E così fra due scogli opposti terrai la via di mezzo, ch’è l’unica a preservarti dal naufragare. Chi nega la grazia, vuole superbo attribuire il suo bene a sè, chi nega il libero arbitrio, vuole malizioso attribuire indirettamente il suo male a Dio. Tu schiva l’uno e l’altro di tali scogli, giacché mal può giudicarsi qual sia il più infame: e riconoscendo, che ogni ben vien da Dio, « Sine me nihil potestis facere — Senza di me nulla potete fare », non lasciar mai di dimandarglielo istantemente : « Ex me fructus tuus inventus est. — Da me verrà il tuo frutto » (Osea 14, 9). E intendendo ch’egli non lo vuol fare in te senza te; corrispondi, e coopera alla sua grazia con vincere te medesimo. « Viriliter age, et confortare, et fac.— Opera virilmente, e fatti animo, e pon mano all’opra ».