GENNAIO
III. GIORNO
Allegrezza terrena e sua vanità.
«Vae vobis, qui ridetis nunc, quia lugebitis, et flebitis !— Guai a voi, che adesso ridete, perché piangerete, e gemerete!» (Vangelo di Luca 6, 25).
I.
Considera quanto giustamente il Signore riprenda tanto quei, ch’ora ridono con maniera eccessiva, dandosi in preda a vane conversazioni, a canti, a balli, a bagordi, ad impurità, e cercando sempre di starsene allegramente. Basta veder, dove ridono, quando ridono, di che ridono. Se miri dove, vedi che ridono nella Valle del pianto, In valle lacrymarum (Salmo 84, 7), dove non altro si trova, che sciagure, o che scelleraggini, le quali di ragione c’invitano a lagrimare almeno per compassione al prossimo nostro; ond’è che questa misera terra giustamente si nomina « Locus flentium. —Luogo de’ piangenti » (Giudici 2). Se miri quando, vedi appunto, che ridono fuor di tempo. Perchè al riso fu assegnata da Dio la vita futura, non la presente: «Tempus flendi, disse egli, et tempus ridendi. — Egli è tempo di piangere, e tempo di ridere » (Qoèlet 3, 4). Il pianto ha da precedere, il riso ha da seguitare; ma costoro pervertono un si bell’ordine, e vogliono quasi fare di notte giorno. Se miri finalmente di che mai ridono, vedi che ridono appunto di quelle cose, di cui dovrebbono piangere più altamente: « Laetantur cum male fecerint, et exultant in rebus pessimis. — Si rallegrano del male, che han fatto, e delle loro malvagità fanno festa » (Proverbi 2, 14). Quanto più cresce il male, tanto più deve crescere la tristezza. E pure essi fanno il contrario. Godono nelle cose cattive: gioiscono nelle pessime. Or vedi tu, che riso iniquo è mai questo, in luogo di miseria, in tempo di mestizia, in operazioni di pura malvagità. E tu quasi lo invidierai?
II.
Considera il gran gastigo, che a questi miseri è intimato da Cristo: « Vae vobis, qui ridetis nunc, quia lugebitis, et flebitis. — Guai a voi, che ridete adesso, perchè piangerete e gemerete! » Il lutto appartiene all’anima, il pianto al corpo, addoloratissimi a un tempo per quelle pene, che riporteranno giù nell’Inferno, l’una di danno, l’altro di senso. Mira però prima il lutto, che spetta all’anima per la sua pena di danno, oh che lutto impareggiabile! Non lo può intendere chi non arriva,prima ad intendere, ciò ch’è Dio. Tanti in questa terra si stimano inconsolabili per aver perduta una primogenitura, per aver perduta una possessione, per aver perduta una carica nella Corte. Che sarà dunque di color, che vedranno di aver perduto per sempre un bene infinito? Questo farà, che la immaginazione stia sempre afflittissima con la viva specie del bene, che in Ciel si gode, maggior del male medesimo dell’Inferno: che le passioni tutte a un tempo si vengano a scatenare, invidia, l’ ira, l’angoscia, il tedio, il terrore, la disperazione, la rabbia: che la memoria tormenti colla ricordanza vivissima di quel tempo, in cui potea così gran bene acquistarsi sì facilmente, e non si curò: che l’intelletto stia tenebroso, stia torbido, stia agitato, e pertinacemente aderisca a stimar, che Dio sia pur troppo ingiusto: che la volontà ostinatissima vi consenta, e così approvando tutti i peccati commessi, e desiderando per dispetto di averne commessi più, abbia in odio Dio, chiunque lo ama, chiunque lo adora, chiunque lo nomina, se pur non è solamente per maledirlo. Or figurati un poco, che sia d’un cuore posseduto da questo lutto.
III.
Considera il pianto, che spetta al corpo, per la sua pena di senso. Che lagrime non cava dagli occhi d’un misera-bile un atroce dolor di viscere, che lo storce, che lo sconvolge, che lo fa smaniare su quel suo letto, come una biscia? E pur chi v’è, che nel suo ventre abbia quello, che vi ha ciascun de’ dannati? Un fuoco effettivo: « In ventre impii ignis ardebit. — Nel ventre dell’empio arderà il fuoco » (Ecclesiastico o Siracide 40, 32). Che se dall’interno del corpo vuoi far passaggio all’esterno, rimira tutti i mali, quantunque tra lor contrarii, star là d’accordo a punire un istesso reo, male di capo, di occhi, di orecchie, di denti, di petto, di podagra, di pietra, di nervi, di vessiche, di ulceri, di posteme. E poi come se tutti questi mali per sè non fossero niente, venire aggiunti i tormenti, che senza in termissione procedono dai Demonii. Che amari fiumi debbon però quei miseri condannati versar di pianto, quando si sentono ora dialogare l’ossa, non altrimenti, che se fossero su un eculeo, or arrotare, or tanagliare, or tirare, ed ora stracciare in altre diverse forme, che noi possiamo adombrare con i vocaboli nostri, ma non esprimere? Allora sì, che scontano molto bene l’antico riso: tanto più che il riso fu breve, siccome quello, che fiorì innanzi tempo; laddove il pianto dovrà essere eterno.