LUGLIO
XXIX. GIORNO
Per qual ragione questo comandamento venga detto primo.
« Diliges Dominum Deum tuum, etc. Hoc est primum mandatum, etc. — Amerai il Signore Dio tuo, ecc.; questo è il primo precetto, ecc. » (Vangelo di Marco 12, 30).
I.
Considera come questo precetto, da noi spiegato nel dì precorso, vien detto primo: Hoc est primum mandatum: e ciò per più capi. I. Perchè egli è il primo nell’intenzion di chi dà la legge. Questo è quel precetto, a cui si ordinano tutti gli altri : « Finis praecepti est Charitas. — Il fine del precetto è la carità » (Prima lettera a Timoteo 1, 5). E conseguentemente egli è il primo nella intenzione, perchè egli è il fine di tutti gli altri precetti. II. Perchè è il primo nella obbligazione di chi riceve la legge. Conciossiachè, se questi ha da osservare tutti gli altri precetti, perchè sono ordinati a questo, molto più dunque è tenuto di osservar questo, a cui gli altri son ordinati. III. Perchè egli è il primo nella dignità fra tutti gli altri precetti, che costituiscono la legge. E qual altro precetto può mai trovarsi, che sia più proporzionato alla nobiltà dell’animo umano? Il precetto più nobile è senza dubbio quello, che meno ti offende la libertà. E tale appunto si è questo : « Diliges Dominum Deum tuum, etc. — Amerai il Signore Dio tuo, ecc. » perchè egli è il solo a non entrar nel numero di quei precetti, che adempionsi contro voglia. Gli altri precetti, non rubare, non adulterare, non ammazzare, ecc., son di lor genere più servili; perchè si possono adempire per puro timore di quel supplizio, che è imposto ai trasgressori. Questo precetto non già. Questo è precetto di amare, e però, non può adempirsi, se non che amando. Se ami perchè temi, già tu non ami, e così già non lo adempi. Non v’è atto più volontario di quello, che sia l’amore, e così non v’è atto più signorile. Ma posto ciò, chi non vede come questo è il primo precetto per dignità? Hoc est primum mandatum. Se non v’è atto il più signorile dell’amore, dunque non v’ha precetto il più signorile di quel che riguarda un tal atto. Ma tu frattanto nota un poco a tuo pro, che sommo torto fai a Dio, quando a lui rubi un tal atto per darlo piuttosto a creature vilissime della terra? Non altro appunto ti meriti se non che egli, come al serpente, ti dia per pena quel che da te già faresti, ch’è di non levare il tuo petto giammai di terra: « Qui in sordibus est, sordescat adhuc. — Chi è nella sozzura, diventi tuttavia più sozzo » (Apocalisse di Giovanni 22, 11). Quando il Signore non ti avesse ordinato sì espressamente, che l’ami, tu lo dovresti pregare con somma istanza a contentarsi di darti una tal licenza, tanta è la sua dignità. E come dunque non lo amerai, neppur dopo, che l’ha ordinato, dicendo : « Diliges etc. — Amerai ecc. »?
II.
Considera, che come questo precetto è il primo nella dignità, che sostiene, primum mandatum; così ancora è il primo nel diletto, che porta. Perchè se l’amore appunto è quello, che condisce l’austero di tutti gli altri precetti, come può essere, che egli in sè non n’abbia stilla? Non può spiegarsi quanto mai goda la volontà, amando Dio. Gode lodandolo, gode onorandolo, gode obbedendogli, ma senza paragone gode amandolo. Ogni diletto vien dalla proporzione, ch’è tra la potenza, e l’oggetto, chi non lo sa? Ma ciò non basta. Ci vuol di più la congiunzione tra essi, di tal maniera, che quanto la congiunzione sarà più stretta, tanto ancora il diletto sarà maggiore. Così ben tu scorgi nel cibo, che sempre senza dubbio piace al palato, per la proporzione, che v’è tra palato, e ‘l cibo: ma quando piace ancor più? Quando il palato congiugne a sè questo cibo più strettamente, cioè masticandolo con la debita forma, e non solamente assaggiandolo, e poi sputandolo. Ora è certissimo, che oggetto più proporzionato alla volontà non si può trovare di Dio, ch’è un cibo, il quale appaga, e mai non satolla; ed è certissimo, che potenza più proporzionata a Dio non si può trovar della volontà, ch’è un palato il quale si pasce, e mai non si sfama. Però conviene, che la congiunzione più stretta di una tal potenza ad un tale oggetto sia senza dubbio la più gustosa di tutte. Ma tale è quella, che si fa con l’amore. Tu no ‘l provi; sia vero. Ma dimandalo un poco a tanti dei Santi, che l’han provato. Oh come ciascun di loro ti dovrà dire: « Fructus ejus dulcis gutturi meo. — Il suo frutto è dolce al mio palato » (Cantico dei Cantici 2, 3). Se tu no ‘l provi, non può nascere dall’oggetto, non può nascere dalla potenza. Da che resta dunque che nasca? Nasce da mancamento di debita congiunzione. Datti all’esercizio di amar Dio, datti alla contemplazione, datti alla compunzione; e vedrai. Ma tu al più gusti il cibo, e dipoi lo sputi : « Fructus ejus dulcis gutturi meo — Il suo frutto è dolce al mio palato ». Non dice « labiis meis — alle mie labbra », dice « gutturi — al palato ».
III.
Considera, che come questo precetto è il primo nella dignità, e nel diletto; così ancora è il primo nell’utile. E la ragion è, perchè il pagamento, che dassi a chi lo eseguisce, pare che a dir vero si truffi, non si guadagni. Di buona regola toccherebbe a noi di pagar Dio, affinchè degnisi di lasciarsi amare da noi; non a Dio di pagar noi, affinchè ci contentiamo di amarlo. Però mira il gran benefizio, che Dio ci ha fatto, quando ha detto qui : « Diliges Dominum Deum tuum, etc. — Amerai il Signore Dio tuo, ecc. ». Ha fatto, che questo amore sia di precetto : Mandatum. E così n’ha certificati, che questo amore sarà presso lui meritevole di mercede, laddove prima parea, che troppo giustamente potessimo dubitarne. In Religione siam certi, ch’è di merito ancora l’andare a spasso, il cibarsi, il conversare, il dormire; e perchè? perchè fassi per ubbidiènza. Così dopo questo precetto, « Diliges, etc. — Amerai, ecc. », è divenuto indubitatamente di merito l’amar Dio, perchè con amarlo ubbidiamo. Nel rimanente qual paga mai di sua natura doveasi a qualunque ami un ben sommo? Eppur piaccia a Dio, che con tutto lo stimolo del precetto tu ancora l’ami.
IV.
Considera, quanto sia da stupire, che non sol tu, ma tanta parte di gente sia sì trascurata in adempire un precetto, che pure è il primo di tutti in qualunque genere: primum mandatum. È vero, che qui non può ella adempirlo perfettamente, come fu detto nella meditazione precedente, ma nemmen procura d’adempirlo più ch’ella può, con applicare quei mezzi, che a ciò conducono: e però non ha scusa alcuna. Ma quali son questi mezzi? Il principalissimo è questo: internarsi nella cognizione profonda di un tanto bene, quanto è quello, che noi siamo tenuti ad amare. I Santi in Cielo il conoscono e « facie ad faciem — da faccia a faccia », e però l’amano tanto. Noi dobbiamo procurare di conoscerlo almen da lungi, « speculatores facti illius magnitudinis — fatti contemplatori della sua grandezza » (Seconda lettera di Pietro 1, 16). Questo sia dunque il tuo studio nel grado tuo : « Statue tibi speculam. — Fatti una vedetta » (Geremia 31, 21). Conoscilo, e l’amerai. Nel resto ancora da lungi in verità è amabile. Le sue creature medesime non fanno altro, che dirti che l’ami. Il Ciel con tutte le sue stelle che dice? Ti dice che l’ami: Diliges Dominum Deum tuum, etc. L’aria, che l’ami; l’acqua, che l’ami, la Terra, che l’ami. Non si sente altro da tutte le creature, che ripetere ogn’ora questo precetto : Diliges Dominum Deum tuum. Se tu non odi, sol è che non poni mente. Se la ponessi, faresti ancora tu, come già facea un tal uomo santo, il quale, pellegrinando, andava col bastone battendo di tratto in tratto l’erbette, i sassi, gli sterpi, i fiori delle piante, e dicendo loro, che non alzassero tanto forte la voce in gridar, che amasse, ch’egli già non era più abile a sopportarle. Bisogna ben dir però, che tu sii distratto, se mai non odi. E se tu odi, e non rispondi, che sei? Io ti dirò ciò che già disse il demonio ricercato di bocca d’un invasato a manifestar chi si fosse : « Io sono, disse, ma con un gemito crudo, io sono quella creatura priva di amore »; nè curò più di spiegarsi.