MAGGIO
XXV. GIORNO
Santa Maddalena de’ Pazzi.
Della necessita delle tribolazioni per piacer a Dio.
« Haec mihi sit consolatio, ut affligens me dolore non parcat, nec contradicam sermonibus Sancti — questa la mia consolazione, ch’egli (il Signore), in affliggermi co’ dolori a nulla perdoni, nè io contradica alle parole del Santo » (Giobbe 6, 10).
I.
Considera, che chi addimanda consolazione, è segno, ch’egli sta afflitto; perchè il gaudio non presuppone di necessità qualche afflizion precedente, ma la consolazion la presuppone. Guarda però, che strana consolazione è quella, che il Santo Giobbe addimanda con questa foggia di supplica al suo Signore: un’afflizione maggior della passata, che di mano in mano succeda senza pietà: « Haec mihi sit consolatio, ut affligens me dolore non parcat. — Sia questa la mia consolazione, ch’egli in affliggermi co’ dolori a nulla perdoni ». Vero è, che insieme coll’afflizione addimanda ancor la pazienza, e però soggiunge, « nec contradicam sermonibus Sancti — nè io contradica alle parole del Santo ». Non dimanda solamente di non contradire « sermonibus Sancti — alle parole del Santo », nè dimanda solamente, che « Sanctus affligens eum dolore non parcat — che il Santo in affliggerlo co’ dolori a nulla perdoni »; ma bensì l’uno, e l’altro insieme. Ti conformarti alla volontà del Signore. quando egli piu’ ti prospera, che ti travagli. e’ di poca consolazione. perchè è assai facile, e però non hai da dir solo: « Haec mihi sit consolatio, ut non contradicam sermonibus Sancti. — Sia questa la mia consolazione. ch’io non contradica alle parole del Santo ». L’aver molta consolazione quando egli calcati ne’ travagli la mano, non è possibile senza d’un’alta conformità nel Signore: e però non hai da dir solo: « Haec mihi sit consolatio, ut affligens me dolore parcat — Sia questa la mia consolazione, che in affliggermi co’ dolori a nulla perdoni ». L’uno, e l’altro congiunto insieme fa quel misto, da cui risulta la consolazione perfetta di un Cristiano ne’ suoi travagli continui. Oh te beato, se arrivi a questo alto stato di chiedere una seguente afflizione per pura consolazion della precedente! e pur bisogna, che sii molto sollecito di arrivarvi. Perchè su questa misera terra non si sta per godere, ma per patire; e però non avrai mai bene finchè non giungi a porre ogni tuo conforto ne’ patimenti.
II.
Considera, che la voglia, che il Santo Giobbe avea di patire, facea che non dimandasse generalmente qualche travaglio; ma che dimandasse specialmente dolore: « Affligens me dolore non parcat. — In affliggermi co’ dolori a nulla perdoni ». Perchè questo è quello ch’è il più acuto ad affliggere. Gli altri mali, sì d’animo, sì di corpo, son più soffribili; ma il dolore, oh quanto è di suo genere tormentoso! Però sta scritto: « Dolor consumet illos, antequam moriantur. — Il dolore gli struggerà prima che muoiano » (Ecclesiastico o Siracide 27, 32). Perchè il dolore ti trasforma in cadavere, prima che ti tolga la vita. E pure il santo uomo non solo chiedeva a Dio un dolore, che lo consumasse, ma che lo consumasse affliggendolo, affligens. Benchè questo vocabolo in linguaggio nostro risuona assai mitemente. Va a ricercare nella fonte il vocabolo, ch’egli usò nel linguaggio proprio, e vedrai, quanto fu crudele: Perchè non fu di affliggere puramente, fu di abbruciare: « Urens me dolore non parcat. — Abbruciandomi co’ dolori a nulla perdoni ». Sicchè volea, che il Signore si portasse come un Cerusico, il quale dove il ferro non basta, adopera il fuoco: e l’adopera ancor senza pietà; che però aggiunse, « non parcat — a nulla perdoni ». Temeva egli, che il Signore, come buono, vedendolo in tante pene, si intenerisse; e però quasi lo rincorava a procedere con rigore: « Non parcat —Non perdoni » alla mia umanità; « non parcat — non perdoni » a’ miei gemiti; « non parcat — non perdoni » alle mie grida: « non parcat — non perdoni » a’ risentimenti, che faccia la mia natura all’ardor del fuoco; ma segua pure costantemente ad usarlo, sinchè io n’andrò finalmente ridotto in cenere: « Urens me dolore non parcat. — Abbruciandomi co’ dolori a nulla perdoni ». Il dolore, quando è si afflittivo, che intende a guisa di fuoco, ciascun sa, quanto sia terribile, ma quando inoltre è continuo, e ravvivato, rinforzato, e incessante, chi può spiegare, a che mesto segno riduca ogni più robusto? Perchè agli altri mali il senso a lungo andare comincia ad istupidirsi, ma al dolore non già, e molto meno ancora al dolor di fuoco; è questo sempre più vivo. E contuttociò mira, a che ancora può giungere un uomo di carne, come sei tu; a chieder al Signore per somma grazia un dolor sì fiero, « ut urens eum dolore non parcat — che abbruciandolo co’ dolori a nulla perdoni ». Tanto il vigor dello spirito può aiutare l’infermità della carne, non già rendendola stupida, ma soggetta: « Domine qui habes sanctam scientiam, manifeste tu scis, quam duros corporis sustineo dolores: secundum animam vero propter timorem tuum libenter haec patior. — Signore, che hai la santa scienza, tu sai certamente quanto atroci dolori io sostengo nel corpo: ma secondo lo spirito volentieri patisco tali cose pel tuo timore » (Secondo libro dei Maccabei 6, 30). Vedi tu che bella orazione ti sarà questa, se tu saprai praticarla ne’ tuoi dolori!
III.
Considera, che il Santo Giobbe addimandando i dolori, addimanda nel tempo istesso di non opporsi ad essi, qualor verranno; ma di accettarli con piena rassegnazione: tanto poco mostra fidarsi di quella brama medesima di patire, che in sè conosce. E questo è proprio degli umili. Quello nondimeno, che qui par molto piu’ degno di osservazione, è la sorta di formola alquanto strana, che in questo adopra. perchè dice: « Nec contradicam sermonibus Sancti. — Ne’ contradica alle parole del Santo ». Parea che dovesse chiedere di non contradire alla volontà del Signore, alla sua disposizione, ai suoi decreti; ma non chiede così. chiede di non contradire alla sua favella; Nec contradicam sermonibus. Mercè ch’egli intendea che questo è ‘1 linguaggio, con cui Dio fa sentirsi da’ peccatori, massimamente ostinati, le afflizioni gagliarde, che ad essi manda. Però tu vedi parimente, che cmeste nelle divine Scritture sono intitolate rimproveri: « Increpat quoque per dolorem in lectulo. — Rimprovera anche nel letto co’ dolori » (Giobbe 33, 19). « Increpationibus non sunt correcti. — Ai rimproveri non si emendarono » (Sapienza 12, 26). « Increpationem non sustinet. — Non sopporta i rimproveri » (Proverbio 13, 8). « Defeci in increpationibus. — Io venni meno ne’ rimproveri » (Salmo 38, 12). Perché quando Iddio ti tribola, ch’altro fa, che rimproverarti quella tua vita, che meni, o rilassata, o rimessa? Che hai per tanto da fare a tali rimproveri? Non ti scusare quasi ché tu non gli meriti. Talora accetti i disastri, che Iddio ti manda; ma nel tempo istesso ti scusi, parendoti, che sieno più grandi de’ tuoi difetti, parendoti, che sieno importuni, parendoti, che sieno improporzionati. Questa non è quella conformità perfetta, che devi avere al voler divino; ad aver questa conviene, che stimi quei rimproveri assai minori di quelli, che a te dovrebbonsì, che gli stimi atti, che gli stimi adeguati, sicchè per ‘niuna circostanza disdicano. nè di tempo, in cui ti ritrovi, nè di carica, nè di cuore”, neppur di forze, perchè son tutti a misura. E questa è quella conformità, che appunto desiderava così grand’uomo, qualor dicea con poche parole sì, ma significanti: « Nec contradicam sermonibus Sancti. — piè io contradica alle parole del Santo ».
IV.
Considera, che avendo egli finalmente a nominare in questo luogo il Signore, gli dà fra tutti quel titolo, ch’hai già tante volte sentito: lo chiama Santo. E per qual cagione? non solo perchè questo è quel titolo caro a Dio, che sopra ogni altro gli danno fui su nel Cielo i Serafini, quando non altro fanno mai, che ripetere a cori pieni, « Sanctus, Sanctus, Sanctus — Santo, Santo, Santo »; ma perchè questo medesimo titolo fa, che più volentieri parimente si accettino quei disastri, ch’egli a noi manda. I disastri, come pur ora si è detto, son suoi rimproveri: Increpationes Domini (Secondo libro dei Re 22, 16). Ma chi non sa, che i rimproveri da nessuna bocca si ricevono mai più pazientemente, che da quella d’un uomo santo? perchè ci pare, ch’abbia ragion di riprenderci, chi niente ha in sè di quel male, di cui ne accusa. Avvezzati dunque spesso a pensar fra te, che quegli, il quale ti tribola, è un Signore santo più di quanto sai immaginarti; sicchè se egli ti rinfaccia, col tribolarti, il vivere, che tu tieni, ha ragion di farlo, mentre è sì diverso da quello, che scorgi in lui. ‘Fu sei senza dubbio suo suddito, suo servo, anzi suo figliuolo; onde come tale sei parimente obbligato per ogni titolo ad imitarlo : « Sancti estote, quoniam ego Sanctus sum. — Siate Santi, poichè io sono Santo ». Quanto dunque ha giusta ragion di rimproverarti con ogni genere di flagello più grave, mentre sì poco ti studii di somigliarlo!
V.
Considera, che queste parole del Santo Giobbe, qui ponderate, erano quelle, che in buon linguaggio avea del continuo in sua bocca quella Serafica Verginella, di cui tu celebri in questo giorno il natale, Santa Maddalena de’ Pazzi. Perchè ella fece questo patto ammirabile col suo sposo, di viver seco in un patire non sol prolisso, non sol perpetuo, ma puro. Però, qualor si accorgea, benché da lontano, che questi quasi mosso a pietà di lei, la volea pur ricreare di tanto in tanto con qualche cortese visita di dolcezze, gridava subito, che mancavasi a’ patti: e con una specie di rifiuto crudelissimo, se non fosse nato d’amore, lo costringea ad andarne da lei lontano : « Fuge, dilecte mi. — Fuggi, o mio diletto » (Cantico dei Cantici 8, 14), lasciandola da sè sola tra i suoi leoni, che quasi a gara le sbranavan le viscere. Qual era dunque l’esercizio di questa innocente Vergine fra le sue pure afflizioni? Potere anch’ella dir fra sè rincorandosi « Haec mini sit consolatio ut affligens me dolore non parcat, nec contradicam sermonibus Sancti. — Sia questa la mia consolazione, ch’egli (il Signore) in affliggermi co’ dolori a nulla perdoni, nè io contradica alle parole del Santo ».