La Manna dell’Anima - Lectio divina - P. Paolo Segneri

SETTEMBRE

 

XXV. GIORNO

Pregi dell’ obbedienza.

« Vir obediens loquetur victoriam. —L’uomo ubbidiente potrà parlare di sua vittoria » (Proverbio 21, 28).

 

I.

Considera, che il più bell’atto, il quale possa mai fare un uomo sopra la terra, è quello, che alcuni stimano men di ogni altro : cioè l’arrivar a vincer se medesimo, perciocchè questo è quell’atto, che più d’ogni altro lo fa sempre operare da quel ch’egli è; lo fa operare da uomo. Poni mente alle tigri, ai pardi, alle pantere, ai leoni, e ad altri simili animali feroci; gli vedrai far bensì atti di valor sommo nel vincer talor degli altri animali di lor più forti : ma non gli vedrai giammai salire a quest’atto di vincer ancora sè. Sempre fan ciò, a che gli porta violentemente l’impulso dell’appetito, o avido, o iracondo, o impuro, o crudele, che gli predomina. Questo grand’atto di vincer se medesimo, è atto sopra la terra serbato all’uomo. E questo è ciò che fra tutte l’altre virtù ti fa operar l’Ubbidienza : fa vincerti te medesimo in quelle cose, in cui men vorresti secondo il basso appetito; e così ti fa veramente operar da uomo, cioè dire da ragionevole, non da bruto. Non ti devi però più stupire, se tanto divinamente si trova scritto, che solo all’uomo ubbidiente si concede il gloriarsi di sua vittoria : Vir obediens loquetur victoriam. Perciocchè qualunque vittoria, la quale l’uomo riporti sol come forte, abbattendo gli altri, è una vittoria comune ancora alle bestie; e però in nessuna di quelle dee giammai l’uomo rimetter la sua gloria. La dee rimettere in quella sol che riporta come ubbidiente, vincendo sè; mercecchè una tal vittoria, non solo il dichiara forte come le fiere, ma lo dichiara anche libero, quale non può dirsi che sia, chi per assecondar le sue voglie indomite, non sa ridursi a operare secondo ciò, che Dio gli fa dinunziare per mezzo de’ suoi ministri. Di’ ora tu : Quando altro allettamento tu non avessi a ubbidir pienamente, prontamente, ed allegramente, non ti dev’essere bastevole questo solo : saper che allora tu vieni a far un atto sì nobile qual è questo ch’hai qui sentito? Però tu scorgi, che chi è vero ubbidiente, cioè chi non ubbidisce con un sol atto al suo superiore, ma gli ubbidisce per abito; nè ubbidisce per desiderio di premio, perocchè questo è ambizione, nè ubbidisce per timore di pena, perocchè questo è abbiettezza; ma ubbidisce perché deve ubbidire; è chiamato «Vir obediens — Uomo ubbidiente », perché egli è uomo sicuramente, ma uomo più che ordinario: è uomo, il quale più d’ogni altro si merita questo si eccelso titolo di Virile.

II.

Considera come tutte quelle vittorie, che si riportano nella vita spirituale, che sono tante, tutte in ristretto si riducono a quella più principale, che l’uomo, per far ciò che gli è comandato, riporta di se medesimo. E però il Savio, secondo la verace lezion vulgata, non si è curato di dire: « Vir obediens loquetur victorias — L’uomo ubbidiente potrà parlare di sue vittorie », come più dottori hanno letto; ma ha voluto espressamente dire « victoriam — di sua vittoria », nel numero non plurale, ma singolare, perché chi soggetta la sua volontà, come deve, a quella del superiore, ch’è la vittoria propria di un ubbidiente, non ha più altri nimici di cui temere. Gli ha vinti tutti con vincere se medesimo: « Possidebit (tal fu il bel premio da Dio donato in Abramo a tutti coloro, che fossero suoi legittimi imitatori nell’ubbidienza) « Possidebit semen tuum portas inimicorum suorum. — I tuoi discendenti saranno padroni delle porte de’ loro nimici » (Genesi 22, 17). I tre nimici sì possenti dell’uomo sono, com’è noto, la carne, il mondo, il demonio. Or quanto al primo, chi non ha vinta la carne, ch’è la parte più vile di lui medesimo, non può arrivare a vincere tutto giorno la volontà, ch’è la signorile. E però quando si mira un vero ubbidiente, si può dire francamente ch’egli sia casto, perché chi ha fatto il più, si può credere ch’abbia fatto il meno. Senza che, questa è rimunerazion singolare, che, come dicono i Santi, costumi Iddio di concedere ad un uomo tale la soggezion della carne : « Qui sibi subjici vult, quod inferius est, se subjicial superiori suo. — Colui, che ama veder a sè soggetto l’inferiore, si assoggetti egli stesso al suo superiore ». E così noi vediamo in prova di ciò, che sino a tanto che ì primi due nostri Padri non trasgredirono il divieto lor fatto nel Paradiso terrestre di non gustare frutto alcuno dell’albero della scienza loro interdetto, mai non provarono nella carne alcun atto di ribellione; ma sì bene il provarono, quand’essi trasgredirono un tal divieto. E però similmente dicono i Santi, che Dio dà per contrario ai disubbidienti lo stimolo della carne, che gli riduca a cadute ancor bruttissime, affinchè così chi non vuole ubbidire onoratamente ad un suo padrone (qual è chi presso lui tiene in terra il luogo di Dio) si vegga obbrobriosamente negar l’ubbidienza debita da un suo servo : « Qui non obtemperas domino, torqueris a servo. — O tu che non ubbidisci al padrone, sarai piegato dal servo » (S. Augustinus). Quanto poi al mondo, ch’è il secondo nimico, non ha di che temere un vero ubbidiente, perchè egli l’ha sotto i piedi. E che è mai ciò che più nel mondo si apprezza? E’ la gloria di sovrastare. Ora tal gloria è quella appunto che l’ubbidiente non cura. Che però non solo egli si soggetta a persone maggiori di sè, o per talenti, o per titoli, o per uffizio, come si usa ancora nel mondo da’ suoi seguaci; ma si soggetta a persone ancora inferiori in qualunque genere, come mai nel mondo non si usa, se non solo talvolta per interesse; ond’è, che scrisse S. Pietro : « Subjecti estote omni humanae creaturae propter Deum — Assoggettatevi a qualunque persona per riguardo a Dio » (Prima lettera di Pietro 2, 13); ch’è quel motivo, per cui solo ciò fa chi è vero ubbidiente; laddove chi nol fa per questo motivo, non si può dire ubbidiente, ma interessato; e così non ha vinto il mondo. E quanto finalmente al demonio, l’ ubbidiente solo può dirsi che sia sicuro di averlo vinto. Gli altri lo possono sperare, ma non possono assicurarsene. Perchè chiunque in operare del bene ha per guida il giudizio proprio, è sottoposto a mille illusioni diaboliche, e a mille inganni. Colui n’è libero, che mai non seguita il giudizio proprio, ma quello del superiore : « Verbum Patris custodiens filius, extra perditionem erit. — Il fanciullo che tien conto della parola del padre, sarà sicuro dalla perdizione » (Proverbio 29, 27). Ed ecco come nella solenne vittoria, che di te stesso riporti per ubbidire, tu vinci tutti. E però nella battaglia, a cui tu discendi qualor ti dai di proposito alla vita spirituale, non pigliar di mira affannosamente veruno in particolare di questi tre nimici pur ora detti. Piglia di mira a ferir la tua volontà, ch’è la dominante : « Non pugnabitis contra minorem, et majorem quempiam, visi contra Regem solum. — Non combatterete contro veruno, o piccolo, o grande, ma contro il solo Re ». Là fissa lo sguardo, là scarica le saette, perchè così nell’abbattere un sol nimico, avrai già conseguito un pieno trionfo.

III.

Considera, che si vuole inferire qualor si dice, che « Vir obediens loquetur victoriam — L’uomo ubbidiente potrà parlare di sua vittoria ». Forse, che dovrà egli pigliare la tromba in bocca, e buccinar da per tutto quella gloriosa vittoria ch’ha riportata vincendo sè, e con sè tutti i suoi più fieri nimici? No, perchè già si sa chiaramente ch’ ogni vittoria si deve ascrivere a Dio : « Deo gratias, qui dedit nobis victoriam. — Grazie a Dio, il quale ci ha dato vittoria » (Prima lettera ai Corinzi 15. 57). Si vuole adunque inferire, che l’ubbidiente potrà della sua vittoria parlare con Dio medesimo, ringraziandolo, commendandolo, celebrandolo; e potrà parlarne co’ Santi, supplicandoli tutti a supplir per sè nella lode, che a Dio si deve. E se vorrà parlarne ancora con gli uomini, affine di ammaestrarli a simil vittoria, di confortarli, di consolarli, o di altro rispetto simile, potrà farlo, perchè egli lo saprà fare. Alcuni vogliono dar precetti bellissimi sopra il vincere se medesimo, solo per ciò, che n’hanno letto ne’ libri, ancorchè in sè mai non l’abbiano praticato, o pur quasi mai. Costoro, che così fanno, tacciano tutti : perchè non dicesi, che « Vir doctus loquetur vicloriam — L’uomo dotto potrà parlare di sua vittoria », nè « Vir eloquens — L’uomo eloquente », nè « Vir eruditus — L’uomo erudito », ma « Vir obediens — L’uomo ubbidiente ». Per poter ragionare fondatamente delle materie di spirito, poco vale la scienza speculativa appresa da’ libri: quella che vale, è la pratica : altrimenti sarà come udire un cieco discorrere di colori: « Qui navigant mare, enarrent pericula ejus, et audientes auribus nostris, admirabimur. — Quelli, che scorrono il mare, ne raccontino i pericoli, e noi all’udirli co’ nostri orecchi ne rimarremo stupefatti » (Ecclesiastico o Siracide 43, 26). Ma se udiremo favellar di tempeste, chi mai non si è discosto con la sua piccola barca dal lido un passo, in cambio d’ ammirarlo nei suoi discorsi, il derideremo. Tale adunque è un altro legittimo intendimento delle presenti parole : « Vir obediens loquetur victoriam — L’uomo ubbidiente potrà parlare di sua vittoria » ; che chiunque vuol trattare del modo che si dee tenere nel vincere se medesimo, ne tratti pure; ma solo quando egli l’avrà praticato, con l’esercizio di una perfetta ubbidienza, che è quello sopra tutti, che conferisce ad apprendere una tal pratica. Oh quanto è facile, che tu presuma di te in materie di spirito, benchè in esso non abbi ancor cominciato ad esercitarti, se non superficialmente! « Qui non est expertus, pauca recognoscit — Chi non ha esperienza sa poche cose » (Ecclesiastico o Siracide 34, 10); perchè non sa mai riconoscere ben le cose, qualor le scorge in altrui, chi non le ha prima conosciute in se stesso.

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