AGOSTO
XXII. GIORNO
Quanto giovi il cominciare da giovane a far del bene.
« Bonum autem facientes non deficiamus: tempore enim suo metemus non deficientes. — Non manchiamo nel far bene : perocchè non mancando mieteremo a suo tempo » (Lettera ai Galati 6, 9).
I.
Considera come in conformità di quanto si è ponderato spezialmente su l’ultimo della precedente Meditazione; poichè l’Apostolo disse: « Qui autem seminat in spiritu, de spiritu et metet vitam aeternam — Chi poi semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna », soggiunse immediatamente queste parole, che ti hanno a dar l’argomento per la presente: « Bonum autem facientes, non deficiamus, etc. — Non manchiamo nel far del bene, ecc. ». Perciocchè essendo tanto il guadagno che fa chiunque semina nello spirito, non è dover, s’egli ha senno, che perda tempo: « Mane semina semen tuum — Spargi di buon mattino la tua semenza », cominciando da giovane a far del bene, « et vespere ne cesset manus tua — e nemmeno la sera sia oziosa la tua mano », con seguitare anche a farlo nella vecchiaia : quia nescis quid magis oriatur, hoc aut illud, perchè non si può saper qual delle tue semenze abbia ad essere più lucrosa, se quella sparsa al mattino, o quella sparsa alla sera : et si utrumque simul, melius erit (Qoèlet 11, 6) e se ambedue frutteranno a un modo medesimo, tanto meglio. Tre son però quelle cose, le quali possono far, che un seminatore abbandoni al fin un’impresa, qual è la sua, di non sì lieve molestia. Il tedio, il timore, la tristezza. E queste possono far che tu parimenti abbandoni il bene operare, se non le superi. La prima è il tedio, perchè a lungo andare il seminar porta noia, non vi essendo in tal opera mescolanza di alcun diletto ; e così è facile, che nel più bello abbandonisi per pigrizia. Non altrimenti succede nel far del bene, massimamente in tempo di svogliatezza. Però in tal caso scuoti da te sì reo tedio, con ricordarti, che chiunque poco semina, poco miete: Qui parce seminai, parce et metet (Seconda lettera ai Corinzi 9, 6). A mieter molto, ci vuole seminar molto; e a seminar molto, ci vuol assiduità. La seconda è il timore, perchè chi semina, vive esposto alle ingiurie della campagna; e però spesso per timor d’esse ritirasi a casa prima ch’ei non dovrebbe. Così pur chi opera bene, lascia talor di operarlo : per qual cagione? Per un vento molesto, ch’ei senta alzarsi, o sia di tentazione, o sia di travaglio, o sia di consiglio contrario, che gli sia dato da’ mal viventi. Ma qui convien ridursi bene a memoria, che « Qui observat ventum, non seminat. — Chi bada ai venti, non semina » (Qoèlet 11, 4). A seminar molto, bisogna sprezzar i sibili, ancora degli aquiloni: e così pure in secondo luogo ci vuole animosità. La terza è la tristezza; perchè chi semina, privasi di quel grano ch’egli possiede, però quantunque egli sappia che non lo getta, ma che lo dà, per così dire, ad usura, contuttociò non finisce quasi di crederlo a se medesimo: e così non opera con quell’alacrità, con cui fa chi miete: « Euntes ibant et flebant, mittentes semina sua. — Andavano, camminando, e piangevano, spargendo le loro semenze » (Salmo 126, 6). E l’istesso interviene nel caso nostro. La poca fede degli uomini fa che quasi si avvisino di gettare menteessi attendono a seminar nello spirito, che pure al fine renderà cento per uno. Però sta forte su le promesse di Cristo. Queste son quelle che ti hanno a fare operar non solo con assiduità, non solo con animosità, ma ancora con allegrezza : « Qui seminat simul gaudet, et qui metit. — Gode insieme e colui che semina, e colui che miete » (Vangelo di Giovanni 4, 63). Perciocchè questa è la differenza che passa tra la seminazion materiale, e la spirituale; che la materiale talor va a vuoto, e però chi sparge il suo grano non dà stupore, se non sa mostrarsi sì lieto, com’è chi segalo. Ma la spirituale sempre è sicura, e però chi opera bene dee star contento, come se ne avesse già il premio : « Fructus justitiae in pace seminatur — Nella pace si semina il frutto della giustizia » (Lettera di Giacomo 3, 18), perchè non v’è quanto ad esso sollecitudine di tempesta, che mai lo involi.
II.
Considera, che a sollevar la fatica del povero agricoltore, mentr’egli semina, e a dargli in essa sì animosità, sì allegrezza, nessuna cosa gli giova più che il pensiero della raccolta : « Debet in spe, qui arat, arare. — Chi ara, deve arar con. speranza » (Prima lettera ai Corinzi 9, 10). Però l’Apostolo dice : « Bonum autem facientes non deficiamus — Non manchiamo nel far bene », e poi segue subito : « Tempore enim suo metemus non deficientes — Perocchè non mancando mieteremo a suo tempo ». Ma che vuol dir qui, « Metemus non deficientes — Non mancando mieteremo »? Vuol dire : « Metemus si tamen non defecerimus — Mieteremo, se pure non avremo mancato ». Perciocchè questa è una condizione di troppa necessità a chiunque vuol mietere i fortunati germogli di quella Beatitudine, che Dio ci appresta nella vita futura, non rimanersi nella presente dal seminar nello spirito, per ostacolo alcuno, che a ciò si opponga : « Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit — Sarà salvo colui che avrà perseverato sino alla fine ». Come si lascia di seminar nello spirito, e si comincia a seminar nella carne, perduto è il tutto : « Germinabit quasi amaritudo judicium super sulcos agri — La vendetta di Dio germoglierà quasi erba amara sui solchi del campo ». Vero è, che altri Santi dànno alle suddette parole due altri significati. Il primo è, che metemus non deficientes: perchè la messe, che nella gloria celeste dovrem raccogliere, di felicità, di conforto, di contentezza, sarà una messe, che non avrà giammai fine : « Qui seminaverit in spiritu, de spiritu et metet vitam aeternam — Chi avrà seminato nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna ». Che se la mietitura sarà perpetua, non è però giusto che in questi pochi giorni di vita, da Dio determinatici, a seminare, non ritiriamo per alcuna lassezza la man dall’opera? « Noli cunctari in tempore angustiae —Non voler indugiare nel tempo d’angustia » (Ecclesiastico o Siracide 10, 29) (cioè in un tempo sì compendioso, sì corto, com’è il presente); perciocchè il premio, da Dio propostoci, sempre sarà da capo ad incominciare : « Si homo non imposuerit finem operi, nec Deus imponet remunerationi. — Se l’uomo non avrà fine nell’operare, nemmeno Dio avrà fine nel rimunerare ». Il secondo è, che metemus non deficientes, perchè la mietitura, che si farà in Paradiso, non è punto simile a quella di questa terra. In questa terra ell’è un’opera lieta sì, ma ancor laboriosa, che presto snerva le persone di forze eziandio robuste. Ma in Cielo è un’opera di pura dilettazione, in cui per quanto venghiamo tutte ad unir le nostre potenze, non correrem giammai rischio d’illanguidire : Metemus non deficientes. Ma che segno è ciò, se non che dell’alto piacere che in essa provasi? Ogni ricreazione di questo Mondo alla fine attedia : quella ci terrà sempre vegeti, sempre vivi, come fa un’Opera, che pur allora incominciasi a recitare da un bel Teatro : « Quis satiabitur videns gloriam ejus? — Chi si sazierà di mirare la gloria di lui? » (Ecclesiastico o Siracide 42, 26). Che dunque hai tu da dedurre da queste due sì legittime spiegazioni, che ti ho apportate, se non che bisogna qui seminare incessantemente in pro dello spirito, ancorchè ciò riuscisse a te, fuor dell’uso, di qualche pena? « Nolite deficere benefacientes. — Non vi rallentate nel ben fare » (Seconda lettera ai Tessalonicesi 3, 13). Perchè la messe sarà molto più bella, che non si crede: « Qui seminant in lacrymis, in gaudio metent. — Quelli che seminano tra le lagrime, mieteranno con giubilo » (Salmo 126, 5).
III.
Considera, come a conseguire questa beata raccolta, di cui diciamo, sicché non sol sia sicura, ma copiosissima; non basta finalmente, nè spargere il seme buono, nè spargerlo in suolo buono, nè fare tutto il resto di più che si è detto appresso in queste due sì congiunte Meditazioni. Bisogna inoltre difendere il seme sparso da quegli uccelli, che stanno pronti a rapirselo : perciocchè questa entra ancora da sè tra le obbligazioni di un retto seminatore, quantunque non venga espressa. Ma come si difende un tal seme? Con ricoprirlo. Così fan gli umili. Sono questi sollecitissimi di coprire ogni ben che vanno operando in pro dello spirito, però ne cavano alfine un guadagno sommo. Laddove i vanagloriosi lo lasciano altrui veder con facilità, e però se nol perdono totalmente, ne perdono almeno assai: « Seminastis multum, et intulistis parum. — Avete seminato molto, e fatta tenue raccolta » (Aggeo 1, 6). Quale adunque può essere la cagione, che tu dal bene, che fai, non guadagni molto? Perchè nol cuopri, quando sei tenuto coprirlo : « Volucres coeli comederunt illud. — Gli uccelli dell’aria (che sono i tuoi frequenti pensieri di vanagloria) lo trangugiarono » (Vangelo di Luca 8, 5).