AGOSTO
XIX. GIORNO
Confronto del giogo di Cristo con quello del mondo.
« Jugum enim meum suave est, et onus meum leve. — Imperocchè soave è il mio giogo, e lieve è il mio peso » (Vangelo di Matteo 11, 30).
I.
Considera, come appresa che bene avrai, massimamente dall’ esempio di Cristo, la mansuetudine, e l’umiltà, non solo avrai trovato quell’alta quiete, di cui più generalmente si favellò nella Meditazion precedente; ma vedrai chiaro (come fu premesso nell’altra, più particolarmente all’intento nostro), che il giogo, a cui Cristo invita, come Signor mansuetissimo, ed umilissimo, è senza paragone più facile a tollerarsi di quello, che impone il Mondo, come Tiranno dispettoso, e arrogante: ch’è ciò che vale sommamente a quietare chi stia perplesso, a qual di questi due gioghi abbia da appigliarsi. E però Cristo dopo aver detto di sopra : « Tollite juguin meum super vos, et discite a me quia mitis sum, et humilis corde, et invenietis requiem animabus vestris — Prendete sopra di voi il mio giogo, e imparate da me, che sono mansueto, ed umile di cuore, e ritroverete quiete alle anime vostre » ; seguita a dire : « Jugum enim meum suave est, et onus meum leve — Imperocchè soave è il mio giogo, e lieve il mio peso ». Per giogo certamente si hanno ad intendere i suoi precetti Evangelici, che non sono insoffribili, ma soavi; e per peso giustamente si possono ancora intendere i suoi consigli, che in certo modo si sovrappongono al giogo, e contuttociò in cambio di aggravarlo lo alleggeriscono : ch’è ciò che resta ora solo da contemplarsi a compir totalmente il detto di Cristo, ripartito già in più mattine. Ma quando qui disse Cristo, che il suo giogo è soave, e il suo peso è lieve, parlò di questo giogo, e di questo peso assolutamente, o pur rispettivamente a quello del Mondo? Fe’ l’uno, e l’altro, ma più rispettivamente, perchè volea che tutti quegl’infelici, i quali servendo il Mondo « laborant — affaticano » in portare il giogo di esso, « et onerati sunt — e sono aggravati » col restare oppressi dal peso di quei peccati, di cui frattanto si caricano, mutasser giogo una volta, mutasser peso, e così vedessero a prova quanto prudente mutazione avean fatta. Questa è la connessione delle presenti parole con le antecedenti. E se con tale opportunità verrai tu qui a capir bene la diversità, la qual passa tra la servitù, che si presta al Mondo dagli empi, e quella che da’ buoni si presta a Cristo, non pare a te che avrai fatto un guadagno esimio?
II.
Considera, come la legge del Mondo, ch’è il giogo il qual egli impone, a primo aspetto par molto più soave, che non par la legge di Cristo; perchè il Mondo vuole, che tu, per non dipartirti dall’uso de’ suoi seguaci, ti studii di appagare le proprie concupiscenze più che ti sia possibile : la concupiscenza della carne con isfogare tutti i piaceri, o sensibili, o sensuali : la concupiscenza degli occhi, con cercare ogni dì più di avvanzare, di accumulare, e di mettere insieme nuove sostanze, e la concupiscenza, se la vogliono dir così, dello spirito, chiamata da S. Giovanni « Superbia vitae — La superbia della vita », con procacciarti ogni grandezza, ogni gloria. Laddove Cristo vuol da te per contrario, che tu mortifichi quanto puoi così fatte concupiscenze. Ma per verità è senza paragon più soave in ciò la legge di Cristo, che non è quella del Mondo. Perchè a mortificare le proprie concupiscenze può, chiunque siasi, assuefarsi a poco a poco di modo, che al fine ottengalo ancor con facilità. Ma chi può giugnere a ottener mai di appagarle? Anzi chi più le nutre, più ancora le rende del continuo insaziabili; essendo elleno come appunto le fiamme d’una fornace, a cui non si scema giammai la fame con pascerle, ma si accresce. Che legge è però mai questa, la quale ti obbliga a procurare una cosa, che non è mai possibile ad ottenersi? Questa non ti felicita, ma t’inquieta. Ed eccoti, che per ciò, che riguarda il fine, è più soave assai la legge di Cristo : « Jugum meum suave est — Soave è il mio giogo ». Dipoi è più altresì soave, per ciò che riguarda i mezzi. Perchè alla fine, se Cristo da te ricerca una cosa, a cui ripugna l’umana naturalezza, ti somministra tali aiuti di grazia, che tu operi ancor sopra la natura, ti avvalora, ti assiste, ti dà forze, atte a reggere ogni gran peso : « Spiritus adjuvat infirmitatem nostram. — Lo Spirito aiuta la nostra debolezza » (Lettera ai Romani 8, 26). Ma il Mondo non fa così. Il Mondo abbandonati in mano al tuo naturale; e benchè ti ordini, che a par d’ogni altro, procuri di stare in lussi, di sfoggiare, di spendere, d’innalzarti; non ti dà però capitale, che a tanto vaglia, non talento, non accortezza, non animo, non vigore, ma fa piuttosto come facea Faraone co’ miseri Ebrei, allorchè gli condannava a fabbriche vaste, e poi non volea loro dar nè pietre, nè paglie, non che stipendio bastevole a porli in opera : « Ite, et colligite sicubi invenire poteritis, nec quicquam minuetur de opere vestro. — Andate a raccogliere, dove potete trovarne, e nulla si scemerà del vostro lavoro » (Esodo 5, 11). Qual dubbio adunque, che molto più torna conto servire a Cristo, Padron discreto, che non al Mondo, il quale portasi da Tiranno? E così il giogo di Cristo è già più soave: « Mandata ejus gravia non sunt. — I suoi comandamenti non sono gravosi » (Prima lettera di Giovanni 5, 3). Ma che vuol dire, che tu, quantunque conosca eziandio per prova, che queste verità sono indubitate, contuttociò non sai staccarti dal Mondo per darti a Cristo? Ah che pur troppo vuoi ingannar te medesimo con credere le lor leggi non quali sono, ma quali tu le fingi. Ma quale iniquità maggiore di questa? « Numquid adhaeret tibi sedes iniquitatis, qui fingis laborem in praecepto. — Ha forse il tribunale d’iniquità qualche cosa di comune con te, che fingi travaglio ne’ precetti » (Salmo 94, 20) a capriccio tuo; e vuoi stimare soave ciò ch’è pesante, e vuoi stimare pesante ciò ch’è soave?
III.
Considera, che come è più soave il giogo di Cristo, che non è quello del Mondo; così più leggiero anch’è il peso: Et onus meum leve. Questo peso, come abbiam detto, sono i consigli Evangelici, i quali uniti a’ precetti, che sono il giogo, non altro aggiungono, che una maggior perfezione nell’osservarli. E questo peso si contrappone altresì al peso, che sulle spalle ti pone il Mondo, che sono quei peccati, nè pochi di numero, nè piccoli di natura, di cui nel servirlo ti carichi. Chi non vede però, quanto il peso di Cristo sia più leggiero, che non è quello del Mondo? Vuoi tu conoscere quanto egli sia più leggiero? Mira quanto è più dilettevole in se medesima la vita de’ perfetti, che la vita de’ peccatori. Primieramente, se tu adempi i precetti di Cristo con perfezione maggiore ancora di quella a cui sii tenuto, tu conseguisci quella totale tranquillità di coscienza, che non ha in terra piacere che la pareggi : « Pax Dei quae exsuperat omnem sensum. — La pace di Dio che sorpassa ogni intendimento » (Lettera ai Filippesi 4, 7). E questa opponsi all’afflizione indicibile, che il peso de’ peccati porta al cuore, come si notò nella prima di queste Meditazioni tra sè connesse. Secondariamente, se tu adempi i precetti di Cristo con perfezione, tu sempre più ti faciliti l’adempirli, perchè questo è proprio del servizio divino, che chi in esso più si mortifica, più si avviva : « Cum infirmor, tunc potens sum. —Quando son debole, allora son potente » (Seconda lettera ai Corinzi 12, 10). E questo opponsi all’altissimo abbattimento, che fanno di te i peccati col loro peso, mentre ti snervano a poco a poco lo spirito di maniera, che totalmente t’infievoliscono al bene, anzi t’inabilitano. E in terzo luogo, se tu adempi i precetti di Cristo con perfezione, tu hai una sicurezza quasi infallibile di salvarti : « Bonum certamen cerlavi, etc. — Ho combattuto nel buon aringo, ecc. », « in reliquo, cioè in futuro, reposita est mihi corona justitiae, quam reddet mihi Dominus in illa die justus judex — nel resto (cioè nel futuro) è serbata a me la corona della giustizia, la quale mi renderà il Signore giusto giudice in quella giornata » (Seconda lettera a Timoteo 4, 7). E questo opponsi al gran timore che devi aver ne’ peccati, di precipitare di colpo giù nell’inferno, dove ti sospinge il lor peso. Quando anche dunque volessimo noi concedere, che il peso imposto da Cristo fosse veramente assai greve per se medesimo : ecco ch’egli lascia di subito d’esser greve, mentr’egli è contrappesato da tanti suoi buoni effetti, che lo sollievano. Ma come si può mai dire, che i consigli Evangelici in sè siano grevi, se scemano la gravezza ancora a’ precetti? E però dicono i Santi, che il loro peso è un peso simigliante a quello dell’ali, che a prima fronte par che dovrebbono gravar di molto quelle Aquile, e quegli Arioni, che l’han sì vaste; e pur non sol nón gli gravano; ma gli fanno più snelli a portare la mole de’ loro corpi fin su le cime non solamente delle alpi, ma delle nuvole. Che dici però tu, che sei così timido a levare un tal peso sopra di te? So che non sei punto obbligato a portarlo, che però disse Cristo : « Tollite jugum meum super vos — Prendete sopra di voi il mio giogo » ; ma non disse « Tollite onus — Prendete il peso », perchè ha ben egli ingiunti a tutti i precetti, che sono il giogo, ma a nessuno i consigli, che sono il peso soprapposto a un tal giogo. Contuttociò, che val che non sii obbligato? Quando un’opera apporta un guadagno sommo, chi è che aspetti a eseguirla, l’obbligazione?
IV.
Considera come quello, che sopra tutto rende a’ suoi seguaci soave il giogo di Cristo, e leggiero il peso, è senza dubbio l’amore, che a Cristo portano. Perchè tal è l’effetto che fa l’amore, quand’è veemente. Fa che l’amante non senta ciò ch’egli tollera per l’amato : « Servivit Jacob pro Rachel septem annis, et videbantur illi pauci dies prae amoris magnitudine. — Servì Giacobbe per Rachele sette anni, e, per l’amore veemente, gli parvero pochi giorni » (Genesi 29, 20). Ma questo amore come può di ragione portarsi al Mondo, che riesce al fine un padrone non solo austero, ma iniquo, infido, ingannevole, traditore, benchè da principio lusinghi con tante belle maniere la gente credula? Puoi tu piuttosto aderirgli per quella innata volontà che t’inclina a sfogar le tue sregolate concupiscenze, com’egli insegna; cioè dire, per amor proprio. Ma sappi pure che l’amor proprio non reca a veruno mai tanto gran piacere, quanto reca l’amor di Cristo. Tu non puoi forse nel tuo stato capire questa verità. Ma credila a tanti Santi che l’han provata. E qual di loro cambierebbe un sol dì la sua mondezza di corpo, la sua povertà, i suoi digiuni, le sue discipline, anzi i suoi vilipendi stessi, che sono i più dolorosi, per tuttociò che gli potesse promettere o la concupiscenza della carne, o la concupiscenza degli occhi, o la superbia magnifica della vita? «Propter quod placeo mihi in infirmitatibus meis, in contumeliis, in necessitatibus, in persecutionibus, in angustiis pro Christo. — Per questo mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie per Cristo » (Seconda lettera ai Corinzi 12, 10). Ecco in che diceva l’Apostolo, « placeo mihi — mi compiaccio » : non ne’ miracoli, non nelle approvazioni, non negli applausi, non ne’ trionfi della sua divina eloquenza; ma nella moltiplicazione di quei patimenti, ch’egli sofferiva per Cristo. Vero è, che ciò non si può persuadere fuor che agli esperti. Però tu ch’hai a far nello stato tuo? Aiutati ad amar Cristo più che tu puoi : allor vedrai, se punto Cristo esagerò quando disse, che a’ suoi seguaci sarebbe stato, e soave il suo giogo sopra le spalle, e leggiero il peso : Jugum meum suave est, et onus meum leve.