FEBBRAIO
XVIII. GIORNO
In che terminan le felicità degli empi.
«Ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad Inferna descendunt. — Menano in feste i loro giorni, e in un istante scendono nell’Inferno » (Giobbe 21, 13).
I.
Considera quanto è vero, che mai non devi portar punto d’invidia alla prosperità de’ cattivi. Ecco finalmente quanto hanno di fortunato: « Ducunt in bonis dies suos — Menano in feste i loro giorni »: non dice « annos — anni », no, dice « dies — giorni ». Vivono allegramente, ma pochi giorni, perchè chi è che tra lor possa vantarsi di aver goduto un sol anno di contentezza? Appena n’avrà goduto in un anno alcun solo dì. Altro è ducere dies in bonis, menare i suoi giorni in feste, in balli, in bagordi, in trattenimenti di tante diverse sorti, che sono in uso; altro è ducere dies bonos, cioè vivere giorni fausti, giorni felici. Oh quante amarezze continuamente s’ inghiottono da quegli stessi, che attendono a soddisfare ogni lor voglia! Se non altro il solo tormento della coscienza è quello, il quale gli rende abbastanza miseri.
II.
Considera, che quando anche questi veramente sempre vivessero allegramente, non li hai però da invidiare, mentre se adesso « ducunt in bonis dies suos — menano in feste i loro giorni » poi « ad Inferna descendunt — scendono nell’Inferno »; cioè là « descendunt — discendono », dove con una dolorosa vigilia avranno da scontar quella breve festa, che contro ogni ragione hanno celebrata innanzi al suo tempo. Pondera però attentamente, in che fanno consistere la lor festa, allora che « ducunt in bonis dies suos — menano in feste i loro giorni » ; in secondare tutti i loro appetiti senza risparmio, la Superbia, l’Avarizia, la Lussuria, l’Ira, la Gola, l’Invidia, l’Accidia. Mira però, come il tutto avranno a scontare terribilmente. Per quello sfogo, che diedero alla Superbia, saranno giù confinati nel più profondo baratro dell’Inferno, a stare eternamente schiavi di Satana, in ceppi, in catene, e carichi di quella inenarrabile confusione, che noi non possiamo al presente finir di apprendere. Per quello sfogo, che diedero all’Avarizia, si troveranno in una povertà miserabile d’ogni bene, d’ogni sollevamento, d’ogni soccorso, e senza poter mai conseguir fra tanti ardori una stilla di acqua. Per quello sfogo, che diedero alla Lussuria, sarà il corpo loro continuamente divorato da Rospi, da Scorpioni, da Serpi, ma non distrutto; e quasi un fuoco infernale non sia per se solo bastevole a tormentarlo, sarà di più tanagliato, scorticato, sbranato, e dato in preda a mille tra lor contrarie carnificine. Per quello sfogo, che diedero alla loro Ira, si vedranno insultati da tanti loro nimici implacabilissimi, quanti saranno i Demonii, cambiati di traditori in tormentatori : e d’altra parte, non ne potranno neppure fare un leggiero risentimento, perchè i Demonii saranno bensì carnefici déi dannati, ma i dannati non potranno esser carnefici de’ Demonii. Per quello sfogo, che diedero alla lor Gola, saranno esausti da un perpetuo digiuno, il quale non da altri cibi verrà interrotto, che di zolfo liquefatto, di pece, di piombo; non da altra bevanda, che da stillati di tossico. Per quello sfogo, che diedero anche all’Invidia, dovranno sempre malgrado loro vedere in altezza somma, quei che in vita schernirono come sciocchi, strapazzarono come schiavi: e brameranno, ma con inutile rabbia, di potergali giù dalle stelle tirar nel fuoco. E finalmente per quello sfogo, che sopra tutto diedero sempre all’Accidia, quando essi furono tanto pigri all’acquisto del Paradiso, dovranno star sepolti in un’alta disperazione, immobili di sito, afflitti, accorati, esuli in eterno da Dio; senza potere mai dalla propria mente rimovere un tal pensiero, che qual insopportabile chiodo vi si andrà sempre più vivamente internando per tutti i secoli. Or guarda adesso, se torna conto « ducere in bonis dies suos — menare in feste i suoi giorni », mentre dovrà a questo succedere un mal sì grande, qual è « ad Inferna descendere — scendere nell’Inferno ».
III.
Considera, che per giunta di tanti mali, non solamente si dice di questi miseri, che « ad Inferna descendunt scendono all’inferno », ma che descendunt in puncto, cioè nello spazio sol di un momento breve. E però chi può dire, che mai sarà, fare con velocità tanto grande un passaggio tale, qual è da estremo ad estremo? Se quelle pene saranno sì intollerabili ancor a quei che vadano laggiù a capitar da qualche galea, dove perpetuamente menarono i loro giorni condannati al remo, al biscotto, al bastone, alla nudità; che sarà di quei delicati, che siano fin allora vivuti in tante delizie, e passino tutt’a un tempo dal trono alla schiavitudine, dalla ricchezza alla povertà, dal riso al pianto, dalle lascivie alle stragi? Perciò tu vedi, che nemmeno si dice, che « ad Inferna descendent — scenderan nell’Inferno », ma che « ad Inferna descendunt — scendono nell’Inferno », perchè spessissimo sull’atto stesso di quei loro sì lieti trattenimenti restano colti da una morte improvvisa, che gli rapisce. Non si dà tempo fra mezzo.
IV.
Considera d’onde nasca, che i miserabili facciano questo sì precipitoso passaggio, che qui si è detto. Non nasce da altro, che dal peso gravissimo dei peccati, di cui si caricano. Questo fa, che piombino « in puncto — sull’istante », perchè questo fa, che non ottengano spazio di ravvedersi innanzi alla morte, ma che muoiano in mezzo a quei loro peccati improvvisamente, e che così rovinino nell’Inferno prima che conoscano ancora di rovinarvi. Nota però, che non dicesi « ad Inferna mittuntur — vengono cacciati nell’Inferno », ma « ad Inferna descendunt — scendono nell’Inferno »; perchè il peso delle loro colpe medesime è quello, che giù li tira naturalmente. Tutte le cose vanno da sè al loro centro, senza bisogno di alcuno estrinseco impulso. E così le colpe vanno da sè prontamente a trovar le pene. Se pure non vogliam dire, che i miserabili « ad Inferna descendunt — scendono all’Inferno », perchè si sappia, che niuno va mai all’Inferno, se non vi vuole andare da se medesimo. Tu che vuoi fare? Sarà dunque vero, che non ti sappi finire ancor di risolvere a porti in salvo?