La Manna dell’Anima - Lectio divina - P. Paolo Segneri

NOVEMBRE

 

XVII. GIORNO

Vantaggi che ricavansi dalla stessa nostra fiacchezza.

« Libenter gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet in me virtus Christi. — Volentieri mi glorierò nelle mie fiacchezze, affinchè abiti in me la virtù di Cristo » (Seconda lettera ai Corinzi 12, 9).

 

I.

Considera quanti furono i mali, da cui rimase l’Apostolo sopraffatto in trentasei anni di vita da lui spesa in onor di Cristo. Prigionie, sferzate, sassate, accuse, insidie, improperii, discacciamenti. E pure da niuno di questi mali si sa, ch’egli mai dimandasse a Dio con istanza di essere liberato. Con istanza dimandò solo di essere liberato dallo stimolo della carne: « Ter Dominum rogavi ut discederet a me. — Tre volte pregai il Signore, che da me fosse tolto » (Seconda lettera ai Corinzi 12, 8); tre volte, cioè moltissime volte, secondo il linguaggio usato dalle Scritture. E ciò, non perchè egli cedesse alla tentazione: conciossiachè per favor divino gastigava egli il suo corpo sin a tal segno di tenerlo soggetto: « Castigo corpus meum, et in servitutem redigo. — Premo il mio corpo, e lo riduco in ischiavitù » (Prima lettera ai Corinzi 9, 27). E però lo spirito, dato a lui tentatore, non avea forza più, che di schiaffeggiarlo; cioè di fargli piuttosto obbrobrio, che offesa: « Datus est mihi stimulus carnis meae, angelus Satanae, qui me colaphizet. — Mi è stato dato lo stimolo della mia carne, un angelo di Satana, che mi schiaffeggi ». E tuttavia quando l’Apostolo, udì da Cristo ch’era meglio per lui stare come gli altri uomini sottoposti a quelle fiacchezze che porta seco la concupiscenza ribelle per lo peccato, da noi contratto in Adamo : « sufficit tibi grafia mea: nam virtus in infirmitate perficitur — basta a te la mia grazia; imperocchè la potenza mia arriva al suo fine per mezzo della debolezza »; mutò di modo parere, che arrivò a dire, ch’egli in tali fiacchezze metteva volentieri ancor la sua gloria : « libenter gloriabor in infirmitatibus meis — volentieri mi glorierò nelle mie infermità ». E per qual cagione? per amor d’esse? non già; ma perchè quelle finalmente avrebbono stabilita in lui la virtù di Cristo : Libenter gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet in me virtus Christi. Tal è il più legittimo senso di questo passo, e il più letterale. E tu da ciò impara bene, che la tua gloria non ha da consistere in venir privilegiato da Dio tra il volgo degli uomini, ed esentato da tentazioni anche impure, anche ignominiose; ha da consistere in cavar da esse quel pro, che Dio con esse intende di apportare all’anima tua : « Quia acceplus eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te. — Poichè tu eri caro a Dio, fu necessario che la tentazione ti provasse » (Tobia 12, 13).

II.

Considera qual sia quella virtù di Cristo, che per tali fiacchezze volea l’Apostolo stabilire in sè maggiormente. Era sicuramente quella virtù, la qual fu propria di Cristo : l’umiltà nella sua persona, la mansuetudine rispetto a quella degli altri. Questo è quel più che Cristo già desiderò d’ insegnare al Genere umano, ignorantissimo in un sì nuovo genere di dottrina: « Discite a me quia mitis sum, et humilis corde. — Imparate da me, che son mansueto, e umile di cuore » (Vangelo di Matteo 11, 29). E però questo si può dire ancora che fosse per verità la virtù di Cristo; cioè la virtù e più predicata da Cristo, e più praticata da Cristo. Ora lo stimolo detto qui della carne, valeva in sommo a tener l’Apostolo umile in se medesimo, perchè avendo questi per altro tanta occasion di vanagloriarsi per li favori su lui piovuti dal Cielo, serviva appunto un tale stimolo a lui come di quel fante, che si mandava innanzi al cocchio de’ trionfatori Romani per suggerire a ciascun di loro ogni tratto, fra tante acclamazioni, e fra tanti applausi, che non si dimenticassero d’esser uomini, fatti anch’essi di creta vile: Memento te esse hominem. E questa umiltà ritenuta sempre in sè dall’Apostolo, che facea? Facea poi ch’egli fosse sempre mansueto verso degli altri, e che compatendoli con viscere di pietà ne’ loro difetti, gli scusasse, gli sopportasse, e gli trattasse da medico, ma da medico sottoposto ancor egli alle infermità. Oh se tu pure sapessi trarre un tal pro dalle tue fiacchezze, qual è questo pur ora detto, di essere umile, e di essere mansueto! Allora sì, che ancora tu con l’Apostolo potresti cominciare infimo a gloriartene, cioè a tenerle in quel pregio in cui sono tenute le doti, o i doni, di cui la gente si gloria: « Si gloriari oportet, quae infirmitatis meae sunt gloriabor. — Se fa di mestieri gloriarsi, di quelle cose mi glorierò, che riguardan la mia debolezza » (Seconda lettera ai Corinzi 11, 30). Le tue fiacchezze sono tante finestre, le quali ti fanno in camera entrare il sole, cioè quel lume che t’illumina insieme, e che ti riscalda: t’illumina nella bassa stima di te, ch’è quel lume di cui tu sei bisognoso più che di ogni altro, e ti riscalda nella carità verso il prossimo, ch’è quel calore di cui sei anche più privo. E come dunque, posto un ben ch’esse apportano così grande, le sdegnerai? Non vedi tu, che serrate finestre sì salutari, rimarresti al buio, e stimaresti facilmente di essere quel che a gran lunga non sei? Sopporta l’ammonitore: « Infirmitas gravis so, briam facit animam. — La grave malattia rende l’anima sobria » (Ecclesiastico o Siracide 31, 2).

III.

Considera come a te può forse apparire, che se pur hai necessità ancora tu d’un ammonitore, il quale ti ricordi la tua viltà, non l’hai però d’un ammonitore sì intestino, sì intimo, qual è il senso; il qual te la ricordi poco men che ad ogni ora molestamente. Fu questo dato all’Apostolo per le sue segnalate rivelazioni : « Ne magnitudo revelationum extollat me, datus est mihi stimulus carnis mele, angelus Satanae, qui me colaphizet. — Affinchè la grandezza delle rivelazioni non mi levi in altura, mi è stato dato lo stimolo della mia carne, un angelo di Satana, che mi schiaffeggi ». Tu non hai si fatte occasioni d’insuperbirti, e però ti sembra di sentire lo stimolo ancor più duro mentr’è in tal genere. Tuttavia rammentati, che non è sempre lo stesso, non insuperbirsi, e non avere occasione d’insuperbirsi. Tu non hai forse occasione d’insuperbirti, te lo concedo; ma guarda bene, che non però tu ti resti d’essere superbo. E posto ciò, se ti sai spesso insuperbire, anche scioccamente, senza occasione, che faresti, se ti venisse? « Qui gloríatur in paupertate, quanto magis in substantia? — Colui che è glorioso nella povertà, quanto più il sarebbe con le ricchezze? » (Ecclesiastico o Siracide 10, 34). Per quattro lagrime, che il Signore ti conceda nell’Orazion ordinaria, per una dolcezza di divozione, per un dono di desideri, ti stimi quasi arrivato già con l’Apostolo al terzo Cielo. Da questo dunque argomenta, che più di lui tu sei bisognoso di chi altresì ti rinfacci la tua vil condizione molestamente, mentre tu non trionfi come l’Apostolo, e pur vai bene spesso pieno di te, come se non facessi altro che trionfare. E poi, donde nasce la poca carità ch’ anche mostri verso il tuo prossimo, se non dalla stima eccessiva di te medesimo? Questa ti rende sì austero nel correggere, sì acerbo nel censurare. Non ti par adunque, ch’abbia il Signore ragion sufficientissima di permettere ancora in te quelle debolezze, che sono comuni ad anime sì maggiori, che non è la tua, per tenerle ferme? In quelle sono permesse, come a navi, che volano al par degli Austri, e degli Affrichi, per savorra : in te sono permesse anche per gastigo. Sei povero, e sei superbo : « Superbia cordis tui extulit te, habitantem in scissuris petrarum. — La superbia del tuo cuore ti ha levato in altura, perchè tu abiti nelle buche de’ massi » (Abdia 1). Che non ti sta dunque bene a tua confusione?

IV.

Considera quanto gran bene sia l’esser umile in sè, mansueto verso degli altri, mentre per posseder una tal virtù torna conto di soggiacere a quelle tentazioni medesime, le quali sono le più obbrobriose. Ma ciò non è maraviglia, mentre a nessuno suol Cristo conferir più la sua grazia, che agli umili, ed ai mansueti : Humilibus dat gratiam (Lettera di Giacomo 4, 6). Mansuetis dabit gratiam (Proverbio 3, 34). « Humilibus dat — Agli umili la dà », perchè l’Umiltà è necessaria da esercitarsi ad ognora. « Mansuetis dabit — Ai mansueti la darà », perchè la Mansuetudine è necessaria ad esercitarsi quando ne viene l’occorrenza. E questa è quella grazia, che ti fortifica interamente. La fortezza compita di un Cristiano è fare, e patire; far molto, patir molto; ma tutto ad onor divino, come già operava l’Apostolo. Ora di far molto Cristo dà grazia agli umili, perchè quegli fa molto, il quale conoscendo di non poter da sè nulla, ricorre a Cristo, e mette tutta in lui la sua confidenza. E di patir molto dà la grazia a’ mansueti, perchè quegli patisce molto, il quale risoluto di non risentirsi di nulla, si lascia nelle occasioni trattar da tutti, come lor piace. E non avea ragione dunque l’apostolo di esclamare: « libenter gloriabor in infirinitatibus ineis, ut inhabitet in me virtus Christi — volentieri mi glorierò nelle mie fiacchezze, affinchè abiti in me la virtù di Cristo »? Potea dire egualmente, « ut inhabitent in me virtutes Christi affinchè abitino in me le virtù di Cristo », cioè l’Umiltà di Cristo, e la Mansuetudine di Cristo, ma volle dir « virtus Christi — la virtù di Cristo »: non sol perchè queste due virtù dianzi dette son sì congiunte, che sembran una; ma perchè in ambe egli sopra tutto apprezzò quella viva forza, quel vigore, quel valore, quella virtù, che da esse doveva in lui risultare a far molto per Dio, ed a patir molto. Le virtù cristiane, che possediamo, non ci hanno ad essere care perchè ci adornano, e ci rendono, a cagion d’esempio, umili, e mansueti; ci hanno ad essere care, perchè in riguardo di quelle ci è data lena a poterci meglio impiegare in onor divino : e così non abbiamo ad amarle qual fine; le abbiamo solamente ad amare qual mezzo, da servire a Dio nostro fine : « Gloria vírtutis eorum tu es. — Gloria della loro fortezza sei tu » (Salmo 89, 18).

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