La Manna dell’Anima - Lectio divina - P. Paolo Segneri

DICEMBRE

 

XVII. GIORNO

Si medita la moltitudine de’ dannati.

« Sicut oves in Inferno positi sunt; mors depascet eos.— Sono stati messi nell’Inferno a turme come le pecore; la morte gli pascerà » (Salmo 49, 15).

 

I.

Considera quanto sia grande la moltitudine de’ dannati. Sicut oves in Inferno positi sunt. Vanno giù come pecore, a turme a turme : « Congrega eos quasi gregem ad victimam. — Radunali qual gregge al macello » (Geremia 12, 3). Nè è maraviglia. Mentre i più degli uomini vivon male, ogni ragion vuole, che male ancora essi muoiano. E tu in tal moltitudine che dirai, se mai, che a Dio non piaccia, tu ancora ti danni? forse che l’aver tanti compagni a dannarsi, sia di conforto? Ma ad una pecora di qual conforto mai fu, non andar sola al macello, l’andar con molte? « Multiplicasti gentem, et non magnificasti kelitiam. — Hai moltiplicata la nazione, ma non hai accresciuta la letizia » (Isaia 9, 3).

II.

Considera, che quei peccatori medesimi, i quali ora tanto arditamente la pigliano contro Dio, che sembrano di volere, quali rinoceronti superbi, sdegnare il giogo d’ogni suo giusto precetto : nel giorno estremo si troveran tanto abbietti, tanto abbattuti, che alla sentenza della loro dannazione non potran fare una minima resistenza, benchè volessero. E ciò vuol esprimere parimenti il Salmista, mentr’egli dice di loro : Sicut oves in Inferno positi sunt. Vedi con quanta facilità un, pastorello guida al macello una gran mandra di pecore? così all’Inferno la divina Giustizia sospignerà una marmaglia di reprobi tanto immensa. Farà che da sè vi vada tutta la misera senza replica : « lbunt hi in supplicium eternum. — Questi andranno nel supplizio eterno » (Vangelo di Matteo 25, 46).

III.

Considera esser tanta la sciocchezza de’ peccatori, che i più di loro si dannano, per non si dipartire da ciò che si usa. Questa è la scusa comune : Si fa così. Di tal maniera, che per non saper vincere un vile rispetto umano, son innumerabili quei, che da’ compagni si lasciano giornalmente « velut irrationabilia pecora — come bestie irragionevoli » (Seconda lettera di Pietro 2, 12), tirare ai giuochi, tirare a’ bagorghi, tirare a’ balli, tirar talora ai postriboli ancor più infami; « ad simulacra muta, prout ducuntur, euntes — correndo ai muti simulacri, secondo che vi sono condotti » (Prima lettera ai Corinzi 12, 2). E ciò pur vuole qui dinotare il Salmista dicendo di tutti loro : Sicut oves in Inferno positi sunt. Hai tu veduto un pastore, quand’egli scorge la sua greggia ritrosa a passare un fosso? Ne piglia una : la fa saltar di là quasi a forza : e allora tutte le altre le corrono tosto dietro. Così fa il demonio : stimola taluno a introdur quella mala usanza. Ed ecco, che ciascun già la imita, come farebbon le pecore, ad, occhi chiusi. Tu, se non vuoi perire coi molti, non gli seguire: « Non sequeris turbam ad faciendum malum. — Non andar. dietro alla turba per fare il male » (Esodo 23, 2).

IV.

Considera come essendo sì grande la moltitudine di coloro, che tutto dì periscono, perchè vogliono, l’Inferno a gran fatica potrà capirgli nel suo gran seno, quando vi avranno a stare, non solamente con l’anime, ma coi corpi. Però il Salmista, che previde in ispirito quella forma, la qual terranno in istarvi, dice che vi staran come pecore fitte insieme: Sicut oves in Inferno positi sunt. Non sai come queste si ammassano tra loro, l’una sopra l’altra, quando l’ovile è incapace? Così forza è, che de’ reprobi ancor accada. E però da questo argomenta, qual sarà tra lor l’oppressione, Io stento, la smania, il contorcimento, non potendo altri reggere a tanto peso, che gli conguide, altri a tanta angustia. Ed eccoti come in vano la moltitudine de’ compagni in patire può dar cagione ivi a’ miseri di conforto. Anzi questo sarà loro uno de’ tormenti più intollerabili, l’esser tanti.

V.

Considera come la sola oppressione pur ora detta dovrebbe di ragione esser sufficiente a cagionare ne’ dannati la morte, se fossero in istato più di riceverla. Ma non potendo i miseri morir più, proveran solo ciò che la morte ha di pena, non proveranno ciò ch’ell’ha di profitto. E però conchiude finalmente il Salmista, che la morte andrà consumandoli a poco a poco, sicchè gli strugga sì bene, ma non gli uccida. E ciò vuol dire : Mors depascet eos. Depascere è propriamente ciò che fan gli animali quando vanno in un prato, mordendo l’erbe, e strappandole, e strappazzandole, per cibarsi; ma sì, che intere vi lasciano le radici. Così farà la morte, non altrimenti che s’ell’avesse finalmente trovato il suo caro pascolo ne’ dannati: Mors depascet eos. Gli consumerà, ma non mai sì, che finisca di consumarli. Per morte poi intendi qui ogni genere di supplizio, atto per altro ad apportare la morte: se pur non vuoi intendere, come fanno molti, il diavolo che per essere stato autor della morte, è chiamato morte, come Cristo è chiamato Vita, per esser lui stato autor della Vita: «Et ecce equus pailidus: et qui sedebat super eum, nomen illi Mors; et Infernus sequebatur eum. — Ed ecco un cavallo pallido: e quella che era sopra di esso, ha nome Morte, e andavale presso l’Inferno » (Apocalisse di Giovanni 6, 8). Ma qualunque sia questa morte, non è sciocchezza pensar sì poco a camparne, che piuttosto le vadano tanti dietro? Infernus sequebatur eum.

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