APRILE
XVII. GIORNO
La Pasqua di Risurrezione
« Scio quod Redemptor meus vivit, et in novissimo die de terra surrecturus sum, et rursum circumdabor pelle mea: et in carne mea videbo Deum meum, quem visurus sum ego ipse, et oculi mei conspecturi sunt, et non alius. Reposita est haec spes mea in sinu meo — So che vive il mio Redentore, e nell’estremo giorno risorgerò dalla terra, e di nuovo vestirò la mia pelle: nella mia carne vedrò il mio Dio: io io stesso il vedrò, e non altri per me, e gli occhi miei il mireranno. Sta nel mio seno riposta una tale speranza » (Giobbe 19, 25).
I.
Considera, che mentre il S. Giobbe non dice qui « Scio quod Conditor meus vivit — So che vive il mio Creatore », ma dice « Redemptor meus — il mio Redentore dà incontanente ad intendere di chi parla. Parla di Cristo, la cui Risurrezione si deduce da ciò, che fosse tanto prima a lui rivelata, per supremo conforto ne’ suoi languori. Però tu vedi, che non dice sol credo, ma dice « Scio — So », perchè qualche lume più chiaro ancor egli ne ebbe, di quel che sia il lume semplice della fede, comune a tutti. Qualunque nondimeno fosse un tal lume, non sembra a te cosa in vero di maraviglia, l’udire un uomo, tanti secoli innanzi alla venuta di Cristo, parlar di risurrezione con un linguaggio, quale appena oggi si sarebbe saputo, dopo tanti concilii e tante costituzioni sopra un tal dogma, formar sì giusto? Quindi è che parla egli di cose future sì, ma ne parla al modo profetico, e però ne parla altresì come di presenti: « Scio quod Redemptor meus vivit — So che vive il mio Redentore ». E non è ciò quello appunto, di cui tu pure in questo giorno sì felice, sì fausto, hai da giubilare? Replica pure fra te senza intermissione queste parole medesime, se ami punto il tuo Redentore, e dì: So che vive: Scio quod vivit. E s’egli vive con questo titolo bello di Redentore, dunque non vive più quella vita affaticata, penuriosa, penosa, ch’egli menava, prima che la desse in riscatto dell’uman genere: no, no: ne vive ora una al tutto beata, qual è quella che acquistò, quando risuscitò poc’anzi da morte. E’ vero ch’egli, come chi è ritornato da un’aspra guerra, ritiene ancora in sè le sue cicatrici. Ma perchè le ritiene? forse perchè non fosse abile a risaldarle? Le ritiene perchè tu vegga quanto egli amò di ricomperarti. Quivi è, dov’egli ha posto la sua gloria, i suoi godimenti, in mostrarsi tuo Redentore, e però ne vuol seco i segni; quasi che non amasse neppur di vivere, se non avesse a rivivere come tale. E tu redento con tanto amore da lui, non gli corrispondi? Judicasti Domine causam animae meae, Redemptor vitae meae (Lamentazioni 3, 58).
II.
Considera come Giobbe, appunto a mostrare che favellava di Cristo, ma di Cristo risuscitato; dopo avere lui detto « Scio quod Redemptor meus vivit — So che vive il mio Redentore », soggiunse subito questa gran conseguenza, « et in novissimo die — e nell’estremo giorno », cioè dire « et ideo in novissimo die de terra surrecturus sum — e perciò nell’estremo giorno risorgerò dalla terra », secondo ciò che qui spiega ciascun interprete. Ma come avrebbe un sì grand’uomo potuto dalla vita di Cristo, ancora mortale, argomentare la propria risurrezione? L’argomentò dalla vita di Cristo sì, ma risorto. Perchè come con la sua Passione doveva Cristo operar la nostra salvezza, in ordine al rimovimento de’ mali a noi già dovuti; così con la sua Risurrezione dovea pur operar la nostra salvezza, in ordine al conseguimento de’ beni a noi non dovuti. Nè dire, che i beni ancora Cristo ci meritò col patir per noi. Perchè, se patendo ce li meritò, com’è certo, non però ce li die’, patendo, a godere. Ce li die’ a goder, risorgendo. Vero è, che Cristo è capo, noi siamo membra: Ipse est caput corporis Ecclesiae (Lettera ai Colossesi 1, 18). E però Cristo a risorgere non tardò, più che al terzo giorno, termine sufficiente a provare evidentemente ch’egli era morto: Tertia die resurget. Noi dobbiamo tardar sino al giorno estremo: in novissimo die de terra surrecturus sum. E ciò con ragione: perchè se le membra son simili al capo nella natura, non però debbon pretendere di essere a lui simili nelle preminenze. Quindi è, che la stessa virtù del Verbo, che tornò in vita Gesù, tornerà senza dubbio in vita anche noi: Qui suscitavit Jesum a mortuis, vivificabit et mortalia corpora vestra (Lettera ai Romani 8, 11). Ma che? In Gesù una tal virtù operava immediatamente, mercè l’unione ipostatica: Apud te est fons vita (Salmo 35), e però in lui doveva una tal virtù operare ancora il più tosto che si potesse, e non differirgli senza necessità quella gloria di corpo, che di ragione gli si sarebbe dovuta dal primo istante della sua Concezione. In noi opera mediante Gesù: In Christo omnes vivificabuntur (Prima lettera ai Corinzi 15, 22), e però allora dovrà sol ella operare, quando Gesù medesimo ci chiamerà, come giudice, dalle tombe, per dare ai corpi nostri il lor premio particolare, e darlo in un giorno stesso, qual è l’estremo, in novissimo die: giorno quanto più tardo, tantó più lieto, mentre ciascun de’ buoni tanto godrà più della propria risurrezione, quanto la vedrà fatta ad un’ora comune a più. E tu frattanto rallegrati col tuo Cristo, che fra quanti risorgeranno, a lui sia giustamente toccato di essere il primo : Primogenitus ex mortuis; affinchè se in tutto egli è il capo, in tutto anche goda il suo primato magnifico sopra tutti: Ut sit in omnibus ipse primatum tenens (Lettera ai Colossesi 1, 18).
III.
Considera come, acciocchè la risurrezione sia vera risurrezione, e non apparente, forza è che risorga quello che cadde. Però quantunque in questo giorno tu vegga il Corpo del tuo Signore bello, brillante, e maestevole più del Sole, non ti dare a credere che sia questo per avventura un corpo diverso da quello, che poc’anzi in lui rimirasti, sì deforme, sì disfatto, e sì lacero in sulla Croce. E’ diverso nella gloria, ma non è già punto diverso nella natura. E questo è ciò, che volle Giobbe parimente far noto, quando egli aggiunse: « et rursum circumdabor pelle mea — e di nuovo vestirò la mia pelle ». Perciocchè essendo la sua pelle sì putrida per le piaghe, che glie l’avevano divorata e distrutta, voleva che s’intendesse, che quella pur gli sarebbe restituita, ma in nuova forma, cioè qual era nel primo suo nascimento, intera, ed intatta. E se a lui si doveva restituire la pelle istessa, che quasi è un semplice vestimento del corpo, quanto più dunque la carne, le viscere, gli umori, l’ossa, i nervi, le fibre, che sono quelle parti che più lo costituiscono? E’ vero, che l’anima, trasfondendo nel corpo quel dì tutte le sue doti, lo renderà agile, splendente, sottile, ed incorruttibile; ma ciò non sarà farlo diverso nella natura, come fu poc’anzi accennato, sarà farlo diverso sol nella gloria: Seminatur in ignobilitate, surget in gloria (Prima lettera ai Corinzi 15, 43). Che s’è verisimilissimo, che quanto il corpo fu per Dio più maltrattato, quando egli cadde, tanto più glorioso sia poscia per divenire nel suo risorgere, oh quanto poco hai da compatire al presente le sue ruine! Lascia pur ora caderti a brano le carni, se tanto Dio vuol da te, ovvero aiutati a maltrattarle tu di tua mano, e a mortificarle. Quanto più a Gesù fosti simile nel patire, tanto più gli sarai poscia simile nella gloria: Si enim complantati facti sumus similitudini mortis ejus, simul et resurrectionis erimus (Lettera ai Romani 6, 5).
IV.
Considera come, quantunque tal gloria debba essere sì eccessiva, non hai però da goder tu, che il tuo corpo ti venga restituito per cagion d’essa: n’hai molto più da godere, perchè in virtù d’essa arriveranno gli occhi tuoi a conseguire la somma beatitudine loro propria, che sarà mirar Gesù Cristo, e saziarsi di lui, e sfogarsi in lui. Non possono essi venire mai sollevati a veder Iddio nel suo essere sublimissimo e semplicissimo, e però lo vedranno, qual è, fatt’uomo. Ma ciò non sarà moltissimo? Anzi questo è quello, che Giobbe intese qui singolarmente di esprimere, quando disse: « Et in carne mea videbo Deum meum — E nella mia carne vedrò il mio Dio », cioè « Judicem meum — Il mio giudice » (come si ha dalla radice qui di un tal nome Deus), « quem visurus sum ego ipse, et oculi mei conspecturi sunt, et non alius, cioè non alius a me — io, io stesso il vedrò, e gli occhi miei il mireranno, e non altri per me ». Non godeva egli della sua risurrezione futura, per vedersi in essa rifiorire il suo corpo già sì piagato. Godeane perciò, che in tale stato avrebbe egli potuto esercitare gli affetti, mirando Cristo, adorandolo, applaudendogli, giubilandone, che però egli lo replica in tante forme. E a dire il vero, non ti par questo un pensiero d’immenso gaudio? Tu, tu medesimo, con cotesti occhi tuoi, ch’ora tieni in fronte, vedrai per tutta l’eternità quel Gesù, che mirato sol una volta anche di passaggio, ha fatti restare estatici tanti Santi. E poi con cotesti occhi medesimi puoi degnarti di veder più le bassezze di questa terra? Serbali ad uso tanto più segnalato, e dì tu pure, che questo è il tuo desiderio, veder Gesù, anzi questa è la tua speranza: reposita est haec spes mea in sinu meo. Sai che il seno è lo scrigno, entro cui si serbano tutte le gioie de’ pensieri più cari. Serbavi questo : e quando i mali di questa vita ti affliggono, sappi allora valertene a tuo sollievo, e dì fra te, che quei mali son tutti un nulla, rispetto ai beni, che con essi ti acquisti: Non sunt condignae passiones hujus temporis, ad futuram gloriam, qua revelabitur in nobis (Lettera ai Romani 8, 18).