OTTOBRE
XIV. GIORNO
Il contemplare dio irato gran mezzo per arrivare alla santità.
« Semper quasi tumentes super me fluctus timui Deum: et pondus ejus ferre non potei. — Quai flutti sopra di me gonfi io temei sempre Dio, e il di lui peso sostener non potei » (Giobbe 31, 23).
I.
Considera quanto vadano ingannati tutti coloro, i quali si pensano, che temere il furor Divino sia proprio di uomini più peccatori che Santi. Si può trovar più santo uomo di quello che fosse Giobbe in qualunque stato, e fortunato, e funesto? E pur odi ciò ch’egli afferma di se medesimo : « Semper quasi tumentes super me fluctus timui Deum. —Quai flutti sopra di me gonfi io temei sempre Dio ». Non v’è spavento paragonabile a quello de’ naviganti, i quali in mezzo all’Oceano, assaltati d’ogni intorno da turbini, e da tifoni, veggono l’onde minacciose venir sopra il loro legno, e portar il subbissamento. Oh che commozione! oh che grida! oh che gemiti ! oh che fracasso ! E pur così diceva Giobbe di temer sempre sopra di sè il suo Signore, quasi flutti gonfi, cioè quasi flutti, non solamente possibili a sollevarsi in tempesta orrenda, ma sollevati. Nè ciò punto è contrario alla Santità, anzi è conformissimo : perchè da questo la Santità piglia lena. Che cosa è Santità? Non è un disprezzo universale di tutte le cose umane? Or ecco donde singolarmente si genera un tal disprezzo : dal veder Dio sopra di sè quasi in forma di rovinosa procella già già imminente. Perchè siccome i naviganti in tal caso non pensano a’ conviti, non pensano a glorie, non pensano a guadagni, non pensano a passatempi, ma pensano a quello solo, che solo importa, ch’è porre in salvo la vita : così non ad altro pensano i Santi ancora nel caso nostro, che a salvar l’anima. Tu vivi per ventura fino al dì d’oggi con un attacco grandissimo a tutti i beni di questa misera terra. Che segno è ciò? Segno è, che sempre miri Iddio verso te, come un mar tranquillo, da cui non sovrasti naufragio. Miralo in tempesta, e vedrai se potrai d’indi in poi più pensare ad altro, se non che a salvarti, anche ignudo sopra una tavola. « Valida nobis tempestate jactatis, seguenti die jactum fecerunt. — Essendo noi battuti gagliardamente dalla tempesta, il dì seguente fecer getto delle merci » (Atti degli Apostoli 27, 18). Tanto presto alla tempesta gagliarda succede il getto.
II.
Considera come i naviganti in tempesta non si contentano di sprezzare quanto hanno per non perire, ma levano voci al Cielo così pietose, che mai non sanno in altri tempi nè piagnere, nè pregare con pari affetto. Così fanno i Santi ancor essi nel nostro caso. E però disse Giobbe « Semper quasi tumentes super me fluctus timui Deum — Quai flutti sopra di me gonfi io temei sempre Dio », per dinotare che sempre si era raccomandato a Dio ne’ suoi dì con quella cordialità, e con quella caldezza, come fa chi si vede venire addosso i marosi irati : « Tamquam inundantes aquae, sic rugitus mens. — Il mio ruggito (è) qual piena di acque, che inonda » (Giobbe 3, 24). Vero è, che come i naviganti per molto raccomandare ch’ essi facciano al Cielo la lor vita, vicina a perdersi, non lasciano di aiutarsi quand’ anche possono, e remano, e sarpano, e sciolgono, e troncano ciò che occorre; così nel caso nostro fanno anche i Santi : e così volea Giobbe significare, sotto metafora, di aver anche esso operato. « Neque enim reprehendit me cor meum in omasi vita mea — Imperocchè il mio cuore non mi rinfaccia in tutta la vita mia » (Giobbe 27, 6), potè dir egli; tanto era stato sempre attento a’ suoi debiti. Che fai tu mentre nulla ti raccomandi, o mentre ti raccomandi, non operi però nulla in conformità di quel che brami da Dio col raccomandartegli? E’ segno, che non hai finora appreso a gran lunga ciò che siasi il temere, come in tempesta.
III.
Considera, che talvolta pensi tu parimente all’ira di Dio, fingendoti di vederla già scaricare a guisa di flutti gonfi : ma sopra chi? sempre sugli altrui legni, non mai sul tuo. Qual inaraviglia è però, se non ti atterrisci? Non così già fanno i Santi. I Santi dicono tutti a un modo con Giobbe : « Semper quasi tumentes super me fluctus timui Deum — Quai flutti sopra di me gonfi io temei sempre Dio » : non « super alios — sopra gli altri », no; « super me —sopra di me », perchè siccom’eglino sentono bassamente di se medesimi, così tengono per costante, che quando ardissero di insolentir contro Dio, Iddio di subito gli manderebbe in conquasso, come un battelletto insultatore de’ turbini, e de’ tifoni ch’egli ha di sopra. Tu credi con facilità di dover essere tollerato pazientemente ne’ tuoi misfatti da Dio, non perchè grande abbi la stima della misericordia Divina, ma perchè grande hai la stima di te medesimo. Ti sembra d’essere sì ben fornito, o di maniere, o di meriti, o di talenti, che si debba a te, come te, usar più rispetto, di quel che si usi al comune dell’uman genere, ne’ falli stessi che sono commessi da te. Ma oh che superbia ben grassa! « Prodiit quasi ex adipe iniquitas eorum. — Dalla grassezza in certo modo scaturì la loro iniquità » (Salmo 73, 7). Se avessi fior di umiltà dovresti subito dire anche tu più di Giobbe : « Semper quasi tumentes super me fluctus timui Deum — Quai flutti sopra di me gonfi io temei sempre Dio » : tanto ti dovresti riputar meritevole di gastigo, pronto, presto, apparecchiato di subito sopra te, come i flutti in aria : ch’è ciò ch’egli ancora protestò altra volta a Dio con più chiari termini in quelle voci : « Verebar omnia opera mea, sciens quod non parceres delinquenti — Io temeva di tutte le mie azioni, sapendo che non la perdonereste al delinquente » (Giobbe 9, 28), non già « nemini delinquenti — a nessun delinquente », trovandosi altrove scritto : « Parcam eis sicut parcit vir filio suo servienti sibi — Io sarò benigno con essi, come un uomo è benigno verso di un figliuolo che lo serve » (Malachia 3, 17); ma « delinquenti mild — a me delinquente »; tanto Giobbe riputavasi degno di gastigo anche inesorabile in qualunque minima colpa che commettesse : « Si impius fuero, vae mihi est. — Guai a me, se io fossi empio » (Giobbe 10, 15).
IV.
Considera come questo può a te sembrare un timor servile, e però non confacevole ai Santi grandi, i quali hanno a contenersi dal male per non offendere il loro Dio, per non disgustarlo, per non disonorarlo, non per timore di venir da lui subito gastigati alla prima offesa leggiera che gli faranno. Ma tu discorri così, perchè non hai ponderato bene finora le parole del santo Giobbe. Senti com’egli parla : « Semper quasi tumentes super me fluctus timui Deum. — Quai flutti sopra di me gonfi io temei sempre Dio ». Non dice « timui flagella Dei — io temei i gastighi di Dio », ma « timui Deum —io temei Dio ». Diversa cosa è temer i gastighi di Dio, diversa cosa è temer Dio, abile a gastigarci, anzi apparecchiato, come sono i flutti già gonfi. Il primo è timor di servi, il secondo è timore ancor di figliuoli, i quali dalla potenza del Re loro padre, dalla rettitudine, dal rigore, prendono argomento di apprezzar tanto più l’obbligo, il quale hanno essi di vivere a lui soggetti : e però da un lato son pronti a baciar la sferza, ov’egli giudichi bene di gastigarli, dall’altro son gelosi di non commuoverlo punto a sdegno, e per qual ragione? Perchè quanto un Re è più armato di podestà, tanto è più degno ancora di essere rispettato dai suoi vassalli « Quis non timebit te, Rex Gentium? — Chi non ti temerà, o Re delle Genti? » (Geremia 10, 7). Questo timore non si chiama servile, si chiama riverenziale, e si attribuisce fino agli Angeli stessi rispetto a Dio : « Columnae Coeli contremiscunt, et pavent ad nutum ejus. — Le colonne del Cielo tremano, e s’impauriscono ad un cenno di lui » (Giobbe 26, 11). E quest’è il proprio de’ Santi, di cui però mille volte si dice nelle Scritture che temono Dio, temono la grandezza di Dio, temono la giustizia di Dio, temono l’ira di Dio, ma non so dove si dica ancora che temono i suoi flagelli, se non al più in senso di dichiararsi meritevoli d’essere flagellati, come S. Agostino disse nel colmo della sua Canta: « Ignem aeternum timeo. — lo temo il fuoco eterno ». Questo è il timore che Giobbe dimostrò in questo luogo, e però egli disse : « Semper quasi tumentes super me, fluctus timui Deum, et pondus ejus terre non potui — Quai !lutti sopra di me gonfi io temei sempre Dio, e il di lui peso sostener non potei » : perchè considerando egli la gran potenza, che aveva Iddio di subbissarlo in un attimo, quasi un legno fatto giuoco delle tempeste, si umiliava tutto al suo gran cospetto, si abbassava, si annichilava, e si dichiarava inabile a ributtare così gran peso, inabile a sostenerlo, più che non è inabile a tanto un battelletto assaltato già dall’Oceano, che gli entra in seno : « Pondus ejus ferre non potui — Il di lui peso sostener non potei »; cioè « potentiam ejus, potestatem ejus — la possanza di lui, la maestà di lui », la quale è detta qui peso, perchè ella è tanta, che a guisa di peso immenso, non solo supera chi che sia, ma il subbissa. Questo timor ch’hai qui udito, fu comune anche a Cristo Nostro Signore, anzi in lui fu maggiore che in qualunque altro; che però di lui solo si trova scritto, che ne fu pieno : « Replebit euni spiritus timoris Domini. — Lo riempirà lo spirito del timor del Signore » (Isaia 11, 3). Perchè egli solo l’ebbe qual si conviene rispetto a Dio. Chi terne Dio, noi terne come buono, noi teme come benigno, lo teme come gastigator degl’iniqui anche severissimo. E come tale Cristo pur temè Dio, non perchè Cristo fosse quanto a sè capace di essere gastigato, ma perchè in Dio riconosceva Cristo in quanto uomo quel dominio sommo, il quale in esso risiede di gastigare ogni suo ribelle, e d’indi si umiliava a lui con affetto di riverenza proporzionata a sì gran dominio. Nè per altra ragione disse forse anche Cristo nel suo Vangelo : « Timete eum, qui postquam occiderit, habet potestateni mittere in gehennain. — Temete colui, che dopo aver tolta la vita, ha podestà di mandare all’ inferno » (Vangelo di Luca 12, 5). Potea dirci egualmente bene, « timete gehennam — temete l’inferno », perchè temere l’inferno non è mal niuno. Contuttociò volle dirci piuttosto « temete eum, qui postquam occiderit, habet potestatem mittere in gehennam — temete colui, che dopo aver tolta la vita, ha podestà di mandare all’inferno », per insegnarci qual sia l’oggetto perfetto del timor nostro : non è il gastigo, è il gastigatore. Provati ad amar Dio daddovero, e scorgerai quanto sarà il tuo diletto in conoscerlo degno di un timor tale, qual è il maggiore che di niun mai possa aversi : « Timor Domini gloria, et gloriatio, et laetitia, et corona exultationis. — Il timor del Signore è gloria, e vanto, e letizia, e corona trionfale » (Ecclesiastico o Siracide 1, 11). In nessuna cosa l’anima santa sperimenta maggior la consolazione, che nel proprio abbassamento, e nel proprio annichilamento : e questo abbassamento, e questo annichilamento ella mai non apprende più che quando si figura al cospetto di un Signor tale, che la può subito inabissar quasi un guscio nel mar furioso : Semper quasi tumentes super me fluctus timui Deum, et pondus ejus ferre non potui.